Cairo, Vanoli è l'ennesimo scaricabarile. Le risposte ai tifosi del Toro? Mai

Il commento alla situazione del club granata

Prima ancora che pretestuoso, scomposto, inopportuno e livoroso, l’esonero verbale di Vanoli da parte di Cairo è stato penosamente scontato e noioso. Oltre che, al solito, autoreferenziale. Come qualsiasi uscita dialettica del presidente proprietario del Torino Fc da vent’anni a oggi. Da quando, cioè, ha rilevato (sostanzialmente gratis: ricordiamolo) il marchio del Toro per cambiarne subito il simbolo e avviare un’avvilente, certosina, quasi scientifica opera di manipolazione genetica del dna granata. La qual cosa non poteva che ripercuotersi vieppiù sulla squadra e su ogni componente della società, entrambe da tempo ridotte ai minimi termini. Per competitività calcistica (di fatto inesistente, almeno a livello di obiettivi, non a caso mai dichiarati) e per passione, vitalità, nerbo, personalità. Del resto, cosa vuoi pretendere da giocatori - in buona parte mediocri come chi li ingaggia - che arrivano in un club considerato e definito in primis dai suoi reggenti una tappa di trasferimento in vista di più appetitosi e ahinoi prestigiosi traguardi.

Cairo e "l'arte" dello scaricabile

In ogni caso, in questa deriva di Toro - secondo il padrone di casa - è sempre colpa di qualcun altro. Quando Cairo fa i complimenti a qualcuno - perché in quel momento magari qualcosa va benino - è sempre per richiamare di riffa o di raffa a presunti meriti suoi. Quando proprio non c’è nessuno a cui si possano rivolgere complimenti, parte - inesorabile - lo scaricabarile. Come se, ed è l’aspetto più irritante, il dirottare le responsabilità sui sottoposti possa davvero assolvere chi li ha scelti, assunti, spacciati per fenomeni quando gli tornava utile e mandati al macero quando la situazione - altrettanto inesorabilmente - precipita. È così da vent’anni. Per gli allenatori: tutti. Per i giocatori. Per i dirigenti. Nel suo Toro, chi non finisce venduto finisce spernacchiato o nell’anonimato. Non facciamo nomi, perché uno vale l’altro e sono intercambiabili, in quest’infausto ventennio di nulla: l’assioma non cambia.

 

 

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I problemi del Toro

Sia chiaro: Vanoli in quest’umiliante finale di stagione ha perso di brutto la squadra, giunta forse alle spalle anche di qualcuna dall’organico più scarso. Ma non è quello il problema. Non può essere quello il problema. Non può essere arrivare undicesimi invece che decimi. Il problema è non prendere un altro attaccante quando ti si rompe quello che, peraltro, è il più forte di tutti. Il problema è arrivare ogni volta a primavera senza più niente da dire in campionato e nemmeno in Coppa Italia. Il problema è la subalternità globale e coatta a una Juve modesta con cui tutti a turno fanno l’impresa tranne il Toro. Il problema è lasciar intendere con deprimente anticipo che pure stavolta i più bravi, o i meno peggio, saranno ceduti. Il problema, grave e greve, è che tutte le osservazioni mosse l’altra notte all’allenatore non sono state tecniche; non sono state argomentate con la forza di argomenti solidi. Sono state dettate dal risentimento per i riferimenti che Vanoli ha fatto - sacrosanti, precisi, per quanto intermittenti e a tratti incoerenti - a come lavorano altri club, a quanto spendono altri club, alle cose su cui investono altri club. Al suo cavalcare in maniera indiretta ma evidentemente urticante la frustrazione di una tifoseria di cui il tecnico ha colto le istanze, provando a farle proprie. All’aver coltivato il “vanolismo” sul campo finché i limiti suoi e quelli della rosa glielo hanno consentito, lanciando sos e messaggini quando si è reso conto - in ritardo, come tutti i suoi predecessori, che arrivano qui imbevuti di propaganda e deferenza, con un’immagine completamente distorta della realtà - di dove era andato a infilarsi.

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Il vero obiettivo dell'invettiva di Cairo

La cosa più fastidiosa, dell’invettiva di Cairo, è che in qualche modo riuscirà, una volta di più, a distogliere l’attenzione dalle responsabilità e mancanze sue, dirottando la critica sulla caccia e l’identikit dell’ennesimo allenatore con cui andare alla ventura e poi eventualmente gettare nell’indifferenziato. Un tentativo quasi disperato di salvare a dispetto dei santi - cioè dei tifosi - poltrona e reputazione. Una reputazione minata, negli ultimi giorni, anche da una contestazione solitaria ma per lui assai imbarazzante a un evento mediatico (a Dogliani) in cui si aspettava solo ossequi e dove ha raccontato la solita, stucchevole, farlocca litania di io qui e io là, milioni di fantastiliardi investiti (dove? Booooh) e conteggio di piazzamenti risibili, e il Fila e il Robaldo come se esistessero davvero, e i palloni che non c’erano quando è arrivato lui e quel Ciuccariello che abita solo nella sua testa ma che continua a evocare per legittimare di una qualche apprezzabilità la sua totale inadeguatezza granata. Il tutto mentre i cuori Toro si danno a un disperato sarcasmo, tra canzoni irridenti elaborate dall’intelligenza artificiale e commenti irripetibili al video della sua festa di compleanno, invero tristissimo, fatto circolare per far credere (più che altro a lui) che sia ancora amato, anziché inviso e dileggiato. È riuscito a ignorare decine di migliaia di tifosi in marcia, pacifici ma uniti e risoluti nell’urlare che non ne possono più, mistificandone le motivazioni. Riesce da mesi a far finta di non sentire che allo stadio, ancora incredibilmente semipieno, gli cantano per ore di vendere (la società, non altri giocatori) e andarsene. Quand’è che risponderà nel merito a quello che da vent’anni gli chiede la gente del Toro, Cairo, e non alle domande che si fa da solo per cantarsela e suonarsela?

 

 

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Prima ancora che pretestuoso, scomposto, inopportuno e livoroso, l’esonero verbale di Vanoli da parte di Cairo è stato penosamente scontato e noioso. Oltre che, al solito, autoreferenziale. Come qualsiasi uscita dialettica del presidente proprietario del Torino Fc da vent’anni a oggi. Da quando, cioè, ha rilevato (sostanzialmente gratis: ricordiamolo) il marchio del Toro per cambiarne subito il simbolo e avviare un’avvilente, certosina, quasi scientifica opera di manipolazione genetica del dna granata. La qual cosa non poteva che ripercuotersi vieppiù sulla squadra e su ogni componente della società, entrambe da tempo ridotte ai minimi termini. Per competitività calcistica (di fatto inesistente, almeno a livello di obiettivi, non a caso mai dichiarati) e per passione, vitalità, nerbo, personalità. Del resto, cosa vuoi pretendere da giocatori - in buona parte mediocri come chi li ingaggia - che arrivano in un club considerato e definito in primis dai suoi reggenti una tappa di trasferimento in vista di più appetitosi e ahinoi prestigiosi traguardi.

Cairo e "l'arte" dello scaricabile

In ogni caso, in questa deriva di Toro - secondo il padrone di casa - è sempre colpa di qualcun altro. Quando Cairo fa i complimenti a qualcuno - perché in quel momento magari qualcosa va benino - è sempre per richiamare di riffa o di raffa a presunti meriti suoi. Quando proprio non c’è nessuno a cui si possano rivolgere complimenti, parte - inesorabile - lo scaricabarile. Come se, ed è l’aspetto più irritante, il dirottare le responsabilità sui sottoposti possa davvero assolvere chi li ha scelti, assunti, spacciati per fenomeni quando gli tornava utile e mandati al macero quando la situazione - altrettanto inesorabilmente - precipita. È così da vent’anni. Per gli allenatori: tutti. Per i giocatori. Per i dirigenti. Nel suo Toro, chi non finisce venduto finisce spernacchiato o nell’anonimato. Non facciamo nomi, perché uno vale l’altro e sono intercambiabili, in quest’infausto ventennio di nulla: l’assioma non cambia.

 

 

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