Superlega o no, salvate il diritto alla diversità e al sogno

Dall'inevitabile progresso agli interessi dei tifosi: il futuro che aspetta il calcio dopo la sentenza della Corte Europea

Alla fine della fiera – o meglio: all’inizio della fiera – il comunicato più onesto sulla faccenda lo ha emesso il Pescara Calcio, serie C d’Italia: “Non avendo ricevuto alcun invito alla Superlega, la nostra società non rilascerà dichiarazioni in merito”. È il commento più onesto non solo perché rifugiarsi nell’(auto)ironia è sempre un modo intelligente per non rischiare di dire sciocchezze, o di lanciarsi in proclami a forte rischio di smentita al prossimo cambio di vento, ma perché in questo momento - al di là dei troppi che sono subito (ri)saliti sul carro della Superlega, così come prima ne erano scesi - si stanno esprimendo tanti pareri e disegnando tanti scenari su una cosa che ancora nessuno, in concreto, al netto degli auspici o degli anatemi, e perfino dei progetti, sa se si farà; e soprattutto, nel caso, come. Chi. In quanti. Quando.

Il nocciolo della questione, peraltro, non è già l’essere pro o contro. Perché il “progresso” (sempre molto tra virgolette) è inevitabile, che lo si voglia accettare e condividere o meno. Dacché il calcio è diventato “moderno”, del resto, si sono realizzati e metabolizzati – fino a considerarli ormai normali – accadimenti come le tv a pagamento (addirittura per la Nazionale, un tempo sacra), i campionati-spezzatino, le coppe dei campioni dove non partecipano i campioni e dove le squadre che vengono eliminate vanno poi a giocare in altre coppe contro squadre in teoria più deboli che senza colpe se le ritrovano tra le balle, le coppe nazionali dove i club più forti iniziano a giocare quando il torneo è quasi finito e da lì in avanti giocano sempre in casa contro i più deboli, le partite dove fai gol ma non puoi esultare - spesso per lunghi, imbarazzanti, grotteschi minuti – finché un computer o un conclave riunito davanti a un monitor non ti dà il consenso, giudicando la stessa cosa ora in un modo ora in un altro, magari a seconda di chi ne beneficerebbe o ne patirebbe, gli stadi con i seggiolini numerati e senza striscioni, tamburi, fumogeni, coriandoli, le tessere del tifoso divenute presto più carte di credito che fidelity card, il dubbio che un giocatore per scommessa regali un calcio d’angolo o si prenda apposta un’ammonizione mentre una volta al massimo potevi temere che si vendesse una sconfitta o taroccasse un pareggio.

Il problema è se quel progresso continui a rispettare – almeno sulla carta, alla scrittura delle regole – presupposti fondamentali della passione popolare quali la meritocrazia, il premio (o la promozione) se vinci e la punizione (o la bocciatura) se perdi, la squalifica se bari; e, soprattutto, il diritto al sogno. Perché la squadra più scarsa ha sempre saputo che difficilmente avrebbe battuto la più forte, ma finora ha sempre potuto almeno sperare di riuscirci; di questo passo, invece, c’è addirittura chi ipotizza l’impossibilità proprio di un confronto, per discriminazione di lignaggio e di fatturato.

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Non è detto che sarà così, anzi noi proprio speriamo il contrario. Non ce ne frega niente dell’Uefa e della Fifa in sé, e riteniamo giusto che chiunque – nel rispetto delle leggi, delle norme e del fair play – possa organizzare quel che gli pare. Ci interessa però che ogni squadra, ogni tifoseria, ogni storia, ogni cultura, ogni sentimento calcistico - Star, Gold, Blue o arancione a pallini verdi che sia - continui ad avere il rispetto che merita e le pari opportunità sportive, per quanto – lo sappiamo già da molto tempo – in maniera molto teorica. Ci interessa che vincere uno scudetto o conquistare una salvezza non diventi meno importante di uno spareggio per accedere dal girone dei peones a quello dei medio sfigati aspiranti al salotto del direttore megagalattico.

Ci interessa che in qualunque stadiolo del mondo la gente del posto possa sperare di vedere un giorno giocare la Juventus, il Manchester United, il Real Madrid. Ci interessa che i sauditi – tanto per fare un nome non a caso – non vengano a cambiare ulteriormente le regole del gioco in virtù delle centinaia di bilioni di fantastiliardi che potrebbero ora facilmente stanziare per organizzarla loro, una Superlega. Ci interessa che quando si disputano i Mondiali e gli Europei, come per le Olimpiadi, ci si ritrovi ancora tutti assieme a palpitare per l’Italia.

Ci interessa che qualsiasi giocatore del mondo continui a considerare la chiamata della Nazionale un onore e non una rottura, e che per il suo club di appartenenza questo rappresenti un obiettivo e non un fastidio. Ci interessa che un bambino possa ancora tifare, sulle gradinate, per la Sambenedettese o per la Pro Vercelli e non, sullo smartphone, per una squadra araba che ingaggi il calciatore più forte del mondo. Ci interessa che nessuno – parafrasando De Laurentiis e il Frosinone in Serie A: mal gliene incolse - un domani possa dire: cosa ci fa il Copenaghen in Superlega?

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Alla fine della fiera – o meglio: all’inizio della fiera – il comunicato più onesto sulla faccenda lo ha emesso il Pescara Calcio, serie C d’Italia: “Non avendo ricevuto alcun invito alla Superlega, la nostra società non rilascerà dichiarazioni in merito”. È il commento più onesto non solo perché rifugiarsi nell’(auto)ironia è sempre un modo intelligente per non rischiare di dire sciocchezze, o di lanciarsi in proclami a forte rischio di smentita al prossimo cambio di vento, ma perché in questo momento - al di là dei troppi che sono subito (ri)saliti sul carro della Superlega, così come prima ne erano scesi - si stanno esprimendo tanti pareri e disegnando tanti scenari su una cosa che ancora nessuno, in concreto, al netto degli auspici o degli anatemi, e perfino dei progetti, sa se si farà; e soprattutto, nel caso, come. Chi. In quanti. Quando.

Il nocciolo della questione, peraltro, non è già l’essere pro o contro. Perché il “progresso” (sempre molto tra virgolette) è inevitabile, che lo si voglia accettare e condividere o meno. Dacché il calcio è diventato “moderno”, del resto, si sono realizzati e metabolizzati – fino a considerarli ormai normali – accadimenti come le tv a pagamento (addirittura per la Nazionale, un tempo sacra), i campionati-spezzatino, le coppe dei campioni dove non partecipano i campioni e dove le squadre che vengono eliminate vanno poi a giocare in altre coppe contro squadre in teoria più deboli che senza colpe se le ritrovano tra le balle, le coppe nazionali dove i club più forti iniziano a giocare quando il torneo è quasi finito e da lì in avanti giocano sempre in casa contro i più deboli, le partite dove fai gol ma non puoi esultare - spesso per lunghi, imbarazzanti, grotteschi minuti – finché un computer o un conclave riunito davanti a un monitor non ti dà il consenso, giudicando la stessa cosa ora in un modo ora in un altro, magari a seconda di chi ne beneficerebbe o ne patirebbe, gli stadi con i seggiolini numerati e senza striscioni, tamburi, fumogeni, coriandoli, le tessere del tifoso divenute presto più carte di credito che fidelity card, il dubbio che un giocatore per scommessa regali un calcio d’angolo o si prenda apposta un’ammonizione mentre una volta al massimo potevi temere che si vendesse una sconfitta o taroccasse un pareggio.

Il problema è se quel progresso continui a rispettare – almeno sulla carta, alla scrittura delle regole – presupposti fondamentali della passione popolare quali la meritocrazia, il premio (o la promozione) se vinci e la punizione (o la bocciatura) se perdi, la squalifica se bari; e, soprattutto, il diritto al sogno. Perché la squadra più scarsa ha sempre saputo che difficilmente avrebbe battuto la più forte, ma finora ha sempre potuto almeno sperare di riuscirci; di questo passo, invece, c’è addirittura chi ipotizza l’impossibilità proprio di un confronto, per discriminazione di lignaggio e di fatturato.

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