Nel Grand Slam delle trappole e delle imboscate, nella solita veste stravagante con cui gli US Open amano presentarsi agli appassionati, anche le parole possono evaporare presto e risultare quanto mai effimere.
Ha un bel dire Carlos Alcaraz, campione uscente e numero uno prossimo a uscire di scena, che per quante sorprese il torneo possa disporgli lungo il tracciato, lui si presenterà nei panni di un giocatore di gran lunga migliore rispetto a quello che vinse l’anno scorso in una finalina (invero molto “ina”…) contro il mezzo vichingo Casper Ruud. «E se fossi io la sorpresa?», ripete tra i sorrisoni entusiasti che dispongono sull’attenti l’acne del volto. La verità è che se lui è cresciuto (e lo è…) questi US Open saranno del tutto diversi da quelli passati, di fatto non paragonabili al torneo che consegnò allo spagnolo allora diciannovenne – alla stessa età di Nadal – il primo Slam della carriera.
Alcaraz, la vittoria dello scorso anno
Perché non c’era Djokovic, al penultimo stop per covid della sua militanza da no wax. Perché fu l’ultimo torneo di Rafa, l’ultimo se non altro in cui aveva ancora un senso considerarlo tra i favoriti. Perché lo stesso Carlitos non aveva ancora chiaro il proprio ruolo, e da dove potessero venire le minacce più concrete. Ora lo sa. Ha capito come battere Medvedev, che Rune di fronte a lui si smonta da solo, che Ruud gli fa un baffo, e Tsitsipas al massimo un baffo e mezzo. Quello che resta da mettere a fuoco sono le regole d’ingaggio contro Sinner, che sarà - sempre nei quarti - il primo pericolo sulla strada della riconquista (e quarto favorito per i bookmaker). Accettare quel tennis mezzo ping e mezzo pong che JS gli impone, sul quale Carlos si trova spesso in ritardo (nel colpire, nel capire, nel replicare)? Oppure seguire la mano santa (e anche la capa santa in questo caso) di papà Ferrero, che gli chiede di dettare i tempi e i modi del match, un po’ variando, un po’ attaccando, ma soprattutto evitando il confronto diretto e le inevitabili forzature che esso comporta?