Il Grande Fiume: le tre vite dell’Avvocato Agnelli

La primavera scapestrata, cui sopravvive per destino, l'estate del dovere cui non può sottrarsi per vocazione, l’autunno della riflessione attraverso il gioco di specchi. Pubblicato su Tuttosport del 25 gennaio 2003

Questa è la storia di un fiume. Di un grande fiume. Magari non sarebbe necessario raccontarla. Nessuno, infatti, la ignora o, perlomeno, tutti ne conoscono a sufficienza i tratti fondamentali. Perché la storia di questo fiume è anche quella che riguarda direttamente almeno un paio di generazioni, appena sfiorate oppure travolte dallo scorrere dell’acqua. Non è manco una storia esclusivamente italiana, anche se il suo cuore è stato alimentato da profonde radici molto provinciali. Il fiume, unico nel suo genere, è partito da un punto ben definito eppoi ha traversato il mondo permettendo a una folla incredibile di passeggeri di gustarne il sapore: conoscenza, ammirazione, timore, invidia, schegge di amore. È una storia, quella del grande fiume, dai tanti copioni scritti per la mano di un unico autore e poi riconducibili in un solo film. La testa di quel fiume s’è gettata nel Grande Blu ed è andata a comporre il Tutto con il suo Piccolo contributo di ex viaggiatore da posto fisso in prima classe su di un treno dove i più fortunati stanno in piedi e sul quale la maggioranza non riesce a salire. Un treno che, spesso, procede al contrario. Infine, probabilmente, neppure lui avrebbe poi tanto piacere che la storia venisse raccontata: troppo acuto per non essere anche assolutamente diffidente e non dover scorgere, tra le pieghe della celebrazione ufficiale, uno stucchevole atto di maniera umanamente fasullo come un frammento di bottiglia spacciato per smeraldo. Gli basterebbe, per apprezzare degnamente il momento del congedo, una semplice parola. Avvocato. Con l’iniziale maiuscola, beninteso. Gli piaceva: «Non sono senatore, la prego non mi chiami così. Senatore è il mio nonno. Il mio nome d’arte è Avvocato». Buffo e tenero insieme, ma andava capito: in fin dei conti, l’avvocatura fu l’unica attività che mai realmente frequentò nel corso di tutta la sua globalizzante e impetuosa esistenza. E forse gli mancava. A lui che aveva avuto tutto e anche di più. Lui, il grande fiume. Gianni Agnelli. L’Avvocato.

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Un fiume, per grande che possa diventare, quando nasce non è un fiume. Semplici vene di acqua pura e vergine, incontaminata sotto la roccia. Eppure incontenibile, per vocazione naturale. Qualcuno di immenso ha stabilito così. Sicché il fiume sgorga da sottoterra il mattino del 19 dicembre 1935, a Villar Perosa. Ha quattordici anni e veste alla marinara. Nella prima fila del minuscolo corteo che segue, lentamente, un furgone con a bordo una bara. Di lì a poco troverà religiosa sepoltura, nella cappella di famiglia, il figlio di colui che Piero Gobetti aveva definito l’eroe solitario del capitalismo italiano. Per arrivare alla tomba degli Agnelli, dall’ingresso del piccolo cimitero, occorre rampicare un numero incredibile di antiche scale in pietra. Lui, il ragazzino, ancora non lo sa, ma da quel giorno sarà costretto a ripercorrere, con cadenza quasi ossessiva e con dolore sempre più intenso, quegli stessi passi. Intanto, in quella mattina di dicembre, il senso della morte per lui può essere soltanto un film del muto. Una realtà che non si addice all’acqua di sorgente che, trovato il varco per uscire, si prepara a diventare fiume scivolando a valle sempre più lesta. Passa il soffio di un alito del drago, infatti, da quel momento al giorno in cui il settimanale tedesco “Stern” lo mostra in copertina titolando molto semplicemente Agnelli III: un re senza necessità di corona, ma le cui azioni avrebbero comunque reso necessario l’intervento di un biografo ufficiale. Marie-France Pochna, la sola persona autorizzata fin dall’inizio della storia a riunire pensieri ed opere dell’Avvocato. Snobismo o poca fiducia negli scrittori italiani? Probabilmente tutte e due le cose insieme le quali, comunque, offrono lo spaccato psicologico del personaggio.

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Un fiume che scende, deve scendere e basta. Non può preoccuparsi più di tanto di quel che incontra lungo il proprio cammino. Il suo destino è quello di raggiungere il Grande Blu, impiegando il minor tempo possibile e operando nel migliore dei modi. Soltanto così un semplice fiume può concedersi il diritto di venir poi concesso alla Storia con la definizione di grande fiume. Ciascuna cosa a suo tempo, comunque. E di tempo ne viene concesso all’Avvocato per poter vivere le sue vite. Non una, ma almeno tre. I suoi affulenti che, coniugandosi in un preciso tratto del percorso, rendono il fiume ancora più maestoso e talvolta inquietante. La vita scapigliata e anche studiatamente scapestrata con la quale gioca, rischiando non poco, per il puro piacere di poterlo fare e sorretto dalla consapevolezza che soltanto il Caso potrebbe frapporsi tra lui e i proprii desideri. Enfant gatè e dandy, è normale. Paurosi incidenti diautomobile, vertiginose discese sugli sci e aritmie di molto simili al corto circuito. Sopravvive a tutto, per destino. Così come era riuscito a sopravvivere a un nonno dittatore, a un padre precocemente assente e a una madre bizzarra come soltanto potevano esserlo le dame della Belle Époque dannunziana. La sua primavera. La discesa del fiume tra pini, valli incantante, anse leggere, strapiombi esaltanti, profumi suggestivi.

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Ricchissimo giramondo e protagonista della mondanità più sofisticata: dai ritrovi di Cannes, di Cap Ferrat e di Portofino, alle piste di Saint Moritz, alle spiagge dei Caraibi e delle Baleari. Tutto più che normale per il giovane Agnelli III al quale viene concessa ogni tipo di stravaganza. Soltanto lui e pochi altri al mondo, dopo aver visto la Dolce Vita di Fellini, potrebbero permettersi il lusso di far volare un aereo privato fino a Stoccolma, caricare a bordo la stupenda Anita Ekberg e ospitarla per qualche giorno in una casa romana alle pendici del Gianicolo. Lui lo fa. Nei cassetti dei potenti i sogni durano giusto il tempo di averli immaginati. Il contatto li fa evaporare. Dura un poco più di tempo del consentito la primavera. Ma neppure lei è eterna. Fatalmente il brivido da eccitazione, financo un pizzico trasgressiva, lascia il posto alla noia. Eppoi si sa che a osservare fisso il sole, il rischio è quello di rimanere accecati. Sicché, un ultimo stacco di fantasioso glamour per inventarsi produttore cinematografico. Marina Cicogna gli fa da alter ego, ma dietro la realizzazione di “Metti, una sera a cena”, un film amaramente snob, c’è l’Avvocato. Non solo, ci sta proprio tutto il suo microcosmo dell’alta borghesia frustrata e perplessa di fronte alla società che sta sussultando, pericolosamente diretta verso frontiere sconosciute. L’ossessione principale è quella della fine delmondo. In effetti un mondo sta finendo. Il suo. Occorre mettersi a fare sul serio, dunque. Ed è allora, giocoforza, che il fiume entra prepotentemente nella pianura. Lì, dov’è piena estate.

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L’ingegner Valletta ha ottant’anni. Più che il bastone del comando, gli serve quello in legno di noce per aiutarsi a camminare con postura sufficientemente eretta. Gli Anni Sessanta sono sul finire e soffiano, con sempre maggiore intensità, venti di guerra politica e sociale. È tempo che Agnelli III decida di abbandonare al proprio destino il Falstaff interiore, il quale lo ha fin qui accompagnato, tenendolo allegro con i suoi numeri da circo shakespeariano, e che metta in pratica la raccomandazione ricevuta dal nonno nel giorno in cui venne imbarcato perché lui, il nipote prediletto, potesse viaggiare alla scoperta degli Stati Uniti e della Ford: «Vai, questo è il momento per divertirti. Poi, lavoro e responsabilità non te ne concederanno più». Eccolo arrivato, il tempo. Gianni Agnelli scopre dentro di sè l’esistenza di un altro uomo. Il secondo. E, con lui, la sua seconda vita. Quel tratto che non era mai apparso e che, probabilmente, era sconosciuto persino a se stesso: lo spirito di servizio, il dovere dal quale non è possibile defilarsi anche se talvolta può essere pesante doverlo gestire, il ruolo, l’Azienda, la città, il Paese, il mondo. Basta abituarsi. Lui non deve faticare. La vocazione sta scolpita nel suo schema genetico, programmato per comandare. È una novità, certamente. Ma alla fine anche le cose nuove piacciono. A lui piace. Confessa a Eugenio Scalfari, con il quale si apparta nell’angolo di una terrazza romana durante la festa in onore di Ted Kennedy di passaggio nella capitale: «Lei conosce quel proverbio napoletano: comandare è meglio che fottere? Chissà perché, questa sera mi è tornato in mente. Non pensa anche lei che sia così?». E poi rise di cuore, l’Avvocato, per quella battuta un po’ volgare che gli era uscita dalla bocca. Lui, solitamente compitissimo. Ma era la verità. Personalmente udii, qualche tempo dopo e a un tavolo di un party con donne bellissime, Cesare Romiti confessare senza reticenza: «Ciò che trovo più sexy in assoluto è decisamente il potere». Il vicerè aveva imparato alla perfezione la lezione dal suo sovrano. Ancora oggi la pratica con successo. Comandare gli piace, dunque. Più del lusso. Più delle donne. Più dei quattrini che peraltro in tasca porta mai. «Vorrei tanto offrirvi un caffè, ma non ho moneta con cui pagare». Glielo offrimmo noi, Angelo Caroli e io, al bar dell’Hotel Alfonso XIII di Siviglia. Gli piace comandare, ma farlo a modo suo naturalmente. Con la sua corte, che non ha mai voluto significare gruppo dirigente, ma amici intellettualmente compatibili per affinità elettive. Tre o quattro nobiluomini romani e siciliani, un paio di giornalisti, due o tre compagni di altri tempi, qualche ex bella donna ricordo del passato, letterati e pittori. Eppoi gli sportivi, quelli autentici. I gourmands del calcio, da Boniperti a Platini. La Juventus griffata con il suo inconfondibile e irripetibile stile. Ma anche più in là. Fino agli ultimi regali fatti alla sua città, Torino, osserata da villa Frescot. Le Olimpiadi del 2006 le quali, senza l’intervento diretto dell’Avvocato, sarebbero state assegnate ad altri. La Pinacoteca del Lingotto, piccola gemma d’arte amata da chi anche di arte visse. Un vero re, insomma. Un grande re illuminato e con una precisa consapevolezza a tenergli compagnia: la totale disistima dei partiti politici e l’immensa stima dei ruoli deputati al rispetto più devoto per le istituzioni. Non a caso, nei giorni della sua primavera, arrivò nella Torino liberata a bordo di un camioncino carico di soldati americani e animato dallo spirito di autentico antifascista.

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Procede lesto e inarrestabile il fiume, nel suo avvicinamento al Grande Blu. Viene presto l’autunno ed è molto più breve dell’estate. Sicché, è quasi subito inverno. Falstaff, definitivamente licenziato, non tornerà mai più. O forse soltanto nel ricordo privato, per non morire dentro prima che fuori. La criniera del leone, una volta coperto il sole dalle nubi del tempo, si fa arruffata. Anche il passo non è più quello di una volta. Tante tempeste ha attraversato Agnelli III. Persino troppe, anche per le grandi spalle di un re. Ora è arrivato il momento di leggersi e di rileggersi attraverso il gioco degli specchi. Un gioco pericoloso. Il vecchio sovrano Lear, reduce egli stesso dalla Tempesta, impazzì osservando il suo volto di uomo illustre solcato da ferite profonde. E vide, soprattutto, il viso di Cordelia. Diventò cieco, Lear. Ma proprio in quel momento, con la sua figlia accanto a parlargli dolcemente, vide sul serio ciò che aveva mai osservato prima quando si illudeva di possedere gli occhi del falco, ma in realtà era miope. In inverno è più facile sentire e ascoltare le voci perché la neve, silenziosa e segreta, cade senza fare rumore. La voce di un figlio, Edoardo, che raccontava un giorno a un amico: «Mio padre, che adoro e che venero, un pomeriggio mi telefonò nella casa di Villar. Tieniti pronto, questa sera, perché andremo alla partita insieme. Lo aspettai fino a quando il sonno non mi avvolse facendomi addormentare, completamente vestito, sulla poltrona della sala. Era notte fonda. Non venne mai, mio padre. Anche questo è mio padre». L’ultima voce, un sussurro. Forse. Prima del nuovo e definitivo ed eterno incontro, durante il quale sarà bastato chiedere scusa per essere stati perdonati. E? finito anche l’inverno, adesso. Non ci sono più stagioni, né altre esistenze da vivere per poi essere raccontate. La testa del fiume ha raggiunto il Grande Blu e si è buttata dentro. Anzi, si è lasciata andare con voluttuoso senso di abbandono. Stanco di potere e di guerra, di compromessi e di finzioni, di successi e di pause, di cortigiani e di finti amici. Pacificato con se stesso e quindi indifferente a tutto ciò che verrà detto su di lui da chi vorrà narrare la storia del grande fiume. Resta la memoria. Quella rimarrà sempre: privilegio per pochissimi. Eppoi, piano e fatalmente, anche lei si farà più lieve e sfumerà con i passi nel tempo sempre più rari di chi, una volta all’anno, arrancherà sui gradini di pietra di quella antica scala che porta alla cappella da dove si vedono i tetti delle case della brava gente di montagna. Lì, sotto la roccia e ascoltando con attenzione, sarà possibile sentire il rumore che fa una esile vena di acqua, fresca e ancora incontaminata, con tanta voglia di uscire per diventare un grande fiume.

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Questa è la storia di un fiume. Di un grande fiume. Magari non sarebbe necessario raccontarla. Nessuno, infatti, la ignora o, perlomeno, tutti ne conoscono a sufficienza i tratti fondamentali. Perché la storia di questo fiume è anche quella che riguarda direttamente almeno un paio di generazioni, appena sfiorate oppure travolte dallo scorrere dell’acqua. Non è manco una storia esclusivamente italiana, anche se il suo cuore è stato alimentato da profonde radici molto provinciali. Il fiume, unico nel suo genere, è partito da un punto ben definito eppoi ha traversato il mondo permettendo a una folla incredibile di passeggeri di gustarne il sapore: conoscenza, ammirazione, timore, invidia, schegge di amore. È una storia, quella del grande fiume, dai tanti copioni scritti per la mano di un unico autore e poi riconducibili in un solo film. La testa di quel fiume s’è gettata nel Grande Blu ed è andata a comporre il Tutto con il suo Piccolo contributo di ex viaggiatore da posto fisso in prima classe su di un treno dove i più fortunati stanno in piedi e sul quale la maggioranza non riesce a salire. Un treno che, spesso, procede al contrario. Infine, probabilmente, neppure lui avrebbe poi tanto piacere che la storia venisse raccontata: troppo acuto per non essere anche assolutamente diffidente e non dover scorgere, tra le pieghe della celebrazione ufficiale, uno stucchevole atto di maniera umanamente fasullo come un frammento di bottiglia spacciato per smeraldo. Gli basterebbe, per apprezzare degnamente il momento del congedo, una semplice parola. Avvocato. Con l’iniziale maiuscola, beninteso. Gli piaceva: «Non sono senatore, la prego non mi chiami così. Senatore è il mio nonno. Il mio nome d’arte è Avvocato». Buffo e tenero insieme, ma andava capito: in fin dei conti, l’avvocatura fu l’unica attività che mai realmente frequentò nel corso di tutta la sua globalizzante e impetuosa esistenza. E forse gli mancava. A lui che aveva avuto tutto e anche di più. Lui, il grande fiume. Gianni Agnelli. L’Avvocato.

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