L’ingegner Valletta ha ottant’anni. Più che il bastone del comando, gli serve quello in legno di noce per aiutarsi a camminare con postura sufficientemente eretta. Gli Anni Sessanta sono sul finire e soffiano, con sempre maggiore intensità, venti di guerra politica e sociale. È tempo che Agnelli III decida di abbandonare al proprio destino il Falstaff interiore, il quale lo ha fin qui accompagnato, tenendolo allegro con i suoi numeri da circo shakespeariano, e che metta in pratica la raccomandazione ricevuta dal nonno nel giorno in cui venne imbarcato perché lui, il nipote prediletto, potesse viaggiare alla scoperta degli Stati Uniti e della Ford: «Vai, questo è il momento per divertirti. Poi, lavoro e responsabilità non te ne concederanno più». Eccolo arrivato, il tempo. Gianni Agnelli scopre dentro di sè l’esistenza di un altro uomo. Il secondo. E, con lui, la sua seconda vita. Quel tratto che non era mai apparso e che, probabilmente, era sconosciuto persino a se stesso: lo spirito di servizio, il dovere dal quale non è possibile defilarsi anche se talvolta può essere pesante doverlo gestire, il ruolo, l’Azienda, la città, il Paese, il mondo. Basta abituarsi. Lui non deve faticare. La vocazione sta scolpita nel suo schema genetico, programmato per comandare. È una novità, certamente. Ma alla fine anche le cose nuove piacciono. A lui piace. Confessa a Eugenio Scalfari, con il quale si apparta nell’angolo di una terrazza romana durante la festa in onore di Ted Kennedy di passaggio nella capitale: «Lei conosce quel proverbio napoletano: comandare è meglio che fottere? Chissà perché, questa sera mi è tornato in mente. Non pensa anche lei che sia così?». E poi rise di cuore, l’Avvocato, per quella battuta un po’ volgare che gli era uscita dalla bocca. Lui, solitamente compitissimo. Ma era la verità. Personalmente udii, qualche tempo dopo e a un tavolo di un party con donne bellissime, Cesare Romiti confessare senza reticenza: «Ciò che trovo più sexy in assoluto è decisamente il potere». Il vicerè aveva imparato alla perfezione la lezione dal suo sovrano. Ancora oggi la pratica con successo. Comandare gli piace, dunque. Più del lusso. Più delle donne. Più dei quattrini che peraltro in tasca porta mai. «Vorrei tanto offrirvi un caffè, ma non ho moneta con cui pagare». Glielo offrimmo noi, Angelo Caroli e io, al bar dell’Hotel Alfonso XIII di Siviglia. Gli piace comandare, ma farlo a modo suo naturalmente. Con la sua corte, che non ha mai voluto significare gruppo dirigente, ma amici intellettualmente compatibili per affinità elettive. Tre o quattro nobiluomini romani e siciliani, un paio di giornalisti, due o tre compagni di altri tempi, qualche ex bella donna ricordo del passato, letterati e pittori. Eppoi gli sportivi, quelli autentici. I gourmands del calcio, da Boniperti a Platini. La Juventus griffata con il suo inconfondibile e irripetibile stile. Ma anche più in là. Fino agli ultimi regali fatti alla sua città, Torino, osserata da villa Frescot. Le Olimpiadi del 2006 le quali, senza l’intervento diretto dell’Avvocato, sarebbero state assegnate ad altri. La Pinacoteca del Lingotto, piccola gemma d’arte amata da chi anche di arte visse. Un vero re, insomma. Un grande re illuminato e con una precisa consapevolezza a tenergli compagnia: la totale disistima dei partiti politici e l’immensa stima dei ruoli deputati al rispetto più devoto per le istituzioni. Non a caso, nei giorni della sua primavera, arrivò nella Torino liberata a bordo di un camioncino carico di soldati americani e animato dallo spirito di autentico antifascista.