E così, dopo dieci giorni di veleni, Francesco Acerbi è stato assolto per mancanza di prove. Per mancanza, meglio, di «alcun ulteriore supporto probatorio e indiziario, rimanendo il contenuto gravemente discriminatorio confinato alle parole dell’offeso» al punto che «non si raggiunge il livello minimo di ragionevole certezza circa il contenuto dell’offesa recata», per utilizzare la terminologia del giudice sportivo Gerardo Mastrandrea. La sentenza suona come inevitabile, alla luce degli elementi sul tavolo e dell’inderogabile garantismo di fondo. Se non che, in passato, la giustizia sportiva a quest’ultimo principio abbia derogato eccome.
La Juve e le plusvalenze
Gli esempi più immediati riguardano precedenti casi di insulti razzisti, ma la casistica delle condanne in assenza di prove prescinde da questi. La penalizzazione comminata alla Juventus lo scorso anno riguardo le plusvalenze è lì, fresca, a testimoniarlo. La mancanza di effettivi riscontri aveva indotto l’accusa a mutare il capo d’imputazione a procedimento in divenire, facendo ricorso all’ampio bacino della lealtà sportiva e calpestando i principi del giusto processo. E, poi, a utilizzare come elemento decisivo le intercettazioni telefoniche operate dalla Procura di Torino, senza che queste ultime fossero ancora state vagliate nel contraddittorio del processo penale, unica sede in cui sia possibile (Costituzione alla mano…) procedere alla formazione di una prova.