Dobbiamo avere paura della Saudi League?

Gli arabi stanno comprando il calcio mondiale perché è un strumento per la loro strategia di espansione economica per il dopo petrolio. Ma occhio agli inglesi...

Il calcio europeo deve aver paura della Saudi League? La domanda, giustamente, esplode nell’estate in cui la razzia di campioni salta agli occhi, ma l’irruzione miliardaria degli arabi è solo uno dei fattori che sta cambiando la geografia del calcio, alla quale contribuisce da diversi anni la Premier League in modo anche più pericoloso.

Sarebbe dunque più corretto chiedersi se il calcio europeo deve avere più paura degli arabi o degli inglesi e, soprattutto, perché le istituzioni politiche e sportive sono così passive di fronte a una situazione che depaupera l’Unione sia dal punto di vista economico che culturale. Un fatto è certo: il calcio, così come lo conosciamo, è destinato a cambiare radicalmente i suoi equilibri nel giro dei prossimi cinque anni. La domanda è se l’Europa e, in particolare, l’Italia, la Spagna, la Germania e la Francia, conserveranno la loro rilevanza tecnica ed economica o se sono destinate a essere marginalizzate. E, sì, anche dalla Saudi League...

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Saudi League, progetto e modalità

Quello degli arabi, infatti, non è un capriccio, ma un progetto. Lo si è capito quasi subito dalle modalità con cui stanno attuando la “conquista”, ma è analizzando le motivazioni del loro arrembaggio che si comprende la solidità e la portata della strategia. Da quando al potere c’è Mohammad bin Salman, cioè da poco meno di un anno, l’Arabia Saudita ha accelerato i progetti economici che vengono gelidamente etichettati come “post oil”, ovvero dopo il petrolio e che rappresentano un lungimirante disegno di diversificazione economica.

Se il petrolio ha creato e continua a creare la smisurata ricchezza del Paese, nel futuro lo scenario potrebbe cambiare: da una parte, infatti, i sauditi considerano il naturale esaurimento delle risorse petrolifere (non così imminente, a dire il vero), dall’altra vedono come una minaccia la battaglia contro i combustibili fossili, indispensabile alla salvezza del pianeta, ma esiziale per la loro economia. La parola d’ordine, dunque, è differenziare: acquistare quote di aziende, entrare in modo ancora più pesante nella finanza mondiale, insomma convertire i soldi del petrolio in attività che possano offrire lo stesso identico benessere alla Nazione, quando il petrolio stesso non potrà più garantirlo...

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Il ruolo del calcio nell'espansione dell'Arabia Saudita

Nonostante le dimensioni gigantesche del portafoglio con cui i sauditi stanno facendo shopping nel mondo (e in Europa in particolare), la loro espansione nell’industria, nell’economia e nella finanza è un processo non privo di complessità politiche e diplomatiche. E qui entra il calcio, che è da sempre uno strumento molto utile a creare consenso e popolarità, aprire molte porte, presentarsi con una faccia molto più rassicurante. I sauditi si sono mossi con Pif, il loro fondo sovrano, che dispone di circa 800 miliardi di dollari da investire e che ha acquisito il Newcastle in Inghilterra, per poi essere il principale finanziatore della Saudi League.

L’obiettivo è creare uno dei campionati più importanti del mondo, se non il più importante, mettendo l’Arabia Saudita al centro della mappa del calcio, che è considerata una delle più efficaci per incidere nella percezione globale di una nazione. L’Arabia vuole essere percepita come nazione moderna e di successo, spazzare via gli stereotipi del passato per fluidificare il processo di espansione di cui sopra. Insomma, non è solo “sportwashing”, ovvero ripulirsi l’immagine (non brillantissima per le note questioni legate agli scarsi diritti umani garantiti), ma qualcosa di più complesso che deve ridisegnare l’idea di Arabia Saudita a trecentosessanta gradi. La crescita della Saudi League, quindi, non è l’eccentrico desiderio di uno sceicco, ma un passaggio chiave di una strategia più ampia e rilevante per il futuro del Paese. Ecco perché non è possibile definirla «una bolla come la Cina di qualche anno fa», come ha frettolosamente fatto Aleksander Ceferin, presidente dell’Uefa.

Il progetto della Saudi League ha un piano decennale alla sua base e risorse sufficienti per metterlo in atto. Certamente non è un piano sostenibile, perché spendendo le cifre spese finora per attirare campioni e giocatori forti, i costi non potranno mai essere coperti dai ricavi. La lega che vende meglio i suoi diritti televisivi è, in questo momento storico, la Premier League che incassa circa 6 miliardi a stagione. Ammesso e non concesso che la Saudi League possa arrivare a fatturare la stessa cifra nel giro di un decennio, i costi sostenuti fino a quel momento avrebbero già aperto un buco piuttosto profondo e, se il livello retributivo del campionato è quello che abbiamo imparato a conoscere quest’estate, non basterebbero quei soldi a tenere in equilibrio la baracca. Ma questo non è il problema dei sauditi, per lo meno non nel medio periodo: i soldi spesi nel calcio sono un investimento per innescarne altri e più importanti, la sostenibilità è un concetto tutt’al più futuribile. E, peraltro, se davvero la geografia del calcio si spostasse verso il Medio Oriente e la Saudi League diventasse una specie di Nba, allora, nel lungo periodo, i conti potrebbero anche tornare. Ma adesso non è il problema dei sauditi, il cui obiettivo è diventarlo, la Nba del calcio...

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La Saudi League diventerà l'Nba del calcio?

Ci riusciranno? Pare strano dirlo in questo momento storico, ma i soldi non sono tutto, anche nel calcio. I fattori che creano il successo di un campionato sono legati non solo alla presenza dei campioni, ma anche alla storicità dei marchi, alla fama dei club. Per quanto depauperata di Messi e Ronaldo, Real Madrid-Barcellona resterà sempre una partita in grado di calamitare l’attenzione di tutti gli appassionati di calcio del mondo. Mentre Al Hilal-Ittihad fatica a colpire la fantasia, anche se le formazioni contengono i più importanti calciatori del pianeta.

Anche in questo caso, tuttavia, è giusto chiedersi: fino a quando? Le nuove generazioni, infatti, legano la loro passione calcistica sempre più ai singoli campioni (anche grazie ai social network, i media più efficaci e penetranti per quelli nati dopo il 2000) e, quindi, potrebbero non curarsi più di tanto della maglia che veste il loro campione preferito. Se Haaland finisse in Arabia, lo seguirebbero in Arabia. Il concetto sempre più sfumato di tifo e fedeltà per un club, quindi, potrebbe giocare clamorosamente a favore di chi ha la disponibilità economica per attirare i campioni più popolari, alla faccia della tradizione e dei tifosi delle vecchie generazioni. Il nocciolo della questione è, quindi, per quanto tempo deve resistere la Saudi League, spendendo molto più di quanto incassa, prima che ci sia un ricambio generazionale così massiccio da spostare la passione verso Est.

Nel frattempo, i soldi investiti in modo massiccio per acquisire i giocatori dall’Europea potrebbero paradossalmente aiutare il calcio europeo. Il rischio, però, è quello di finire come i paesi del Terzo Mondo che vendono a quelli più ricchi le loro materie prime per sostenere economie disastrate in un meccanismo che finisce per impoverirli sempre di più.

Nell’immediato, vendere a 50 milioni un centrocampista che vale 30 milioni, può sistemare i conti, ma a furia di cedere i pezzi pregiati quanto varrà il calcio italiano o quello spagnolo o quello francese? Se già oggi la Lega di Serie A fatica a vendere i suoi diritti televisivi (e farà festa se la diminuzione degli introiti rispetto al precedente contratto sarà solo intorno al 10%), il rischio è che il bando successivo sia ancora meno remunerativo e, quindi, i club abbiano ancora meno risorse per pagare i campioni e abbiano bisogno di vendere i loro giocatori agli arabi, ma a cifre ancora più basse. Uno scenario apocalittico, ma non troppo fantasioso, se si analizza la situazione attuale e la si proietta in un futuro vicino quattro o cinque anni...

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Saudi League, l'unica avversaria è la Premier League

Gli unici in grado di contrastare gli arabi sono gli inglesi, che hanno creato nel giro di trent’anni un prodotto globale pressoché perfetto, approfittando della grande tradizione dei loro marchi, dell’universalità della loro lingua, della capacità di fare sistema dei loro club che ha consolidato nel tempo la Premier League e l’ha trasformato nel campionato più importante del pianeta. E, negli ultimi dieci anni, la capacità di assorbimento di campioni è stata certamente superiore a quella che stanno mettendo in campo gli arabi. Gli inglesi, oltretutto, hanno un modo oculato di accrescere il livello tecnico del loro campionato acquistando all’estero i grandi campioni e facendo sempre in modo che una parte importante delle immense cifre spese dal loro calciomercato rimanga all’interno del sistema. Quando due club inglesi chiudono un affare da 120 milioni di euro, quel denaro rimane in circolo, alimentando il benessere diffuso del movimento, creando una barriera economica per le offerte arabe. Bene per gli inglesi, ma il resto d’Europa?

L’Unione Europea, della quale la Gran Bretagna non fa più parte, rischia di vedere appassire un business da 10 miliardi all’anno e un valore culturale condiviso come il calcio. La tradizione dei club storici è potenzialmente immortale e, oggi, un tifoso della Juventus, del Real Madrid, del Bayern Monaco, ma anche dell’Ajax o dello Sporting Lisbona può serenamente affermare che non gliene frega niente dei campioni e degli arabi, lui seguirà sempre la sua squadra del cuore. Ma il movimento è destinato a impoverirsi e la passione potrebbe perdere dei pezzi. Nel mondo della comunicazione globale e delle grandi piattaforme di streaming non potrà esserci spazio (e denaro) per tutti i campionati, ma i grandi tornei assorbiranno la stragrande maggioranza delle risorse.

Quali saranno? La Premier League o la Saudi League? Al momento, per esempio, il più grande fagocitatore di risorse economica del calcio mondiale è la Champions League, quella che per qualcuno era «il calcio del popolo», ma ha finito per arricchire solo pochi e creare un divario enorme all’interno del sistema europeo. Domani di quello stesso meccanismo potrebbe esse.

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Il calcio europeo deve aver paura della Saudi League? La domanda, giustamente, esplode nell’estate in cui la razzia di campioni salta agli occhi, ma l’irruzione miliardaria degli arabi è solo uno dei fattori che sta cambiando la geografia del calcio, alla quale contribuisce da diversi anni la Premier League in modo anche più pericoloso.

Sarebbe dunque più corretto chiedersi se il calcio europeo deve avere più paura degli arabi o degli inglesi e, soprattutto, perché le istituzioni politiche e sportive sono così passive di fronte a una situazione che depaupera l’Unione sia dal punto di vista economico che culturale. Un fatto è certo: il calcio, così come lo conosciamo, è destinato a cambiare radicalmente i suoi equilibri nel giro dei prossimi cinque anni. La domanda è se l’Europa e, in particolare, l’Italia, la Spagna, la Germania e la Francia, conserveranno la loro rilevanza tecnica ed economica o se sono destinate a essere marginalizzate. E, sì, anche dalla Saudi League...

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