La storia
Tim avrà così l’occasione di imparare l’italiano: papà George gli parlava nella nostra lingua, ma al momento il suo erede se la cava ovviamente benissimo con l’inglese, da madrelingua, e il francese. New York è il posto dove è nato, ma è anche qualcosa in più: è casa, il luogo dei ricordi di quando era bambino, anche se a dieci anni si sposta in Florida, a Pinewood, sobborgo elegante di Miami. E a 12 anni entra nella Nazionale americana, nel sistema di Team Usa e non ne esce più, provocando dispiacere nel popolo liberiano per la scelta di rappresentare gli Stati Uniti. Ma del resto, come aveva spiegato lo stesso Weah Junior, «sceglievo sempre gli Usa quando giocavo alla Playstation, per me è stata una decisione naturale». Il calcio è la sua professione, la passione in realtà è un’altra: la musica rap, amore nato ascoltando i pesi massimi del genere come Tupac Shakur e Notorious B.i.g. e poi portata a un altro livello, da produttore fai da te di trap soul.
Nato attaccante, diventato terzino
Dai playground di Brooklyn a un’altra metropoli come Parigi: un passo che avrebbe potuto far girare la testa a tanti, ma non al figlio di George. Si allena con fenomeni come quelli del Psg e impara da tutti. Nasce attaccante, sta diventando terzino, anche se nella Nazionale a stelle e strisce ha licenza di attaccare, partendo da destra: nei sei mesi a Glasgow si toglie anche lo sfizio di vincere qualche titolo, prima di approdare a Lille. Di lui Thomas Tuchel, uno che ne capisce insomma, diceva: «Rapido e con una buona capacità di resistenza: una combinazione notevole. È intelligente, ha voglia di apprendere: dipende da lui». Papà George lo ha sempre spronato, ma rimanendo un passo indietro, senza fargli ombra: ora Tim aspetta l’ok per dare una mano alla Juve e spiccare il volo, insieme, con la squadra per la quale il padre faceva il tifo.