Erano tenaci i pionieri, che non disdegnavano la goliardia e avevano un meraviglioso modo di raccontare i loro avventurosi inizi. Gracchia il vinile da cui esce la voce di Umberto Malvano, 13 anni il giorno della fondazione, calciatore e poi dirigente della Juventus, che nel 1970 (quando di anni ne aveva 86) era stato intervistato da Sandro Ciotti per un disco, che all’inizio del museo racconta con una incantevole nostalgia la sua infanzia, quasi incredulo che la sua adolescenza abbia gettato la prima pietra di un monumento della storia sportiva e sociale del nostro Paese, conosciuto in ogni parte del pianeta.«Noi volevamo allenarci alla corsa, ma gli inglesi con quel pallone ci hanno stregato! Ci trovavamo sempre sulla panchina all’incrocio fra Corso Re Umberto e Corso Vittorio. Lì parlavamo e progettavamo la fondazione di un club come quello degli inglesi». E la panchina è lì davanti, esposta nella teca più grande e affascinante, illuminata in modo suggestivo, per rapire chi la guarda e trasportarlo indietro nel 1897 e spiegargli che sì, la Juventus è qualcosa di enorme che produce emozioni forti, gioia e disperazione, per milioni di persone, ma tutto parte dalla tenace passione di un gruppo di ragazzi che avevano un sogno e l’hanno realizzato. Il più grande, Enrico Canfari, aveva vent’anni, uno in meno di Nicolò Fagioli appunto, anche lui proprietario di un sogno realizzato giusto sabato sera: un gol con la Juventus. Potrebbero parlarsi, Canfari e Fagioli, trovando più di un argomento in comune: due ventenni, 125 anni in mezzo a loro, e un filo che gli consente di far passare la stessa emozione.
La Juventus nasce adolescente, un po’ bohémien forse, ma con la tigna tutta torinese di chi, anche quando gioca, vuole fare le cose per bene. E così si fa arrivare le maglie dall’Inghilterra, dove sono anni luce avanti con lo sport: bianche e nere, come quelle del Notts County, la squadra del cuore di Tom Savage, un inglese che si era unito ai ragazzi del D’Azeglio per insegnare loro un po’ di regole e un po’ di trucchi della disciplina che li aveva stregati. Era tenace, tenacissimo, Edoardo Agnelli, che nel 1923 diventa presidente della Juventus, dopo che suo padre, il senatore Giovanni, fondatore della Fiat, aveva deciso di acquistare quel club di football e applicare la sacra regola di famiglia: qualcosa fatta bene può sempre essere fatta meglio. Edoardo è appassionato di calcio, ma è un uomo che guarda avanti e la Juventus diventa il primo club moderno della storia del calcio italiano. Ha un suo stadio, in corso Marsiglia, dentro il quale c’è la sede e, addirittura, una palestra per allenarsi al chiuso, tribune in cemento armato, un impianto di illuminazione. E dentro ci mette i giocatori migliori pescati in Italia e nel mondo, soprattutto in Argentina e Uruguay, dove i rappresentati della Fiat fanno da scout e scelgono i talenti migliori da portare a Torino. Nasce la Juventus dei cinque scudetti consecutivi, base dell’Italia bicampione del mondo nel 1934 e 1938. C’è un progetto dietro, c’è una dirigenza attenta (coordinata dal leggendario barone Giovanni Mazzonis), c’è una struttura, c’è insomma un piano per arrivare al successo e la tenacia per metterlo in pratica. «Senza lavoro non si ottiene niente», dice spesso Edoardo, il nonno di Andrea.