Pagina 2 | Juventus, vincere è l’unica cosa che conta?

Vincere è l’unica cosa che conta? Dopo tutto è davvero questa l’essenza della juventinità? Il vero riassunto del passato, del presente e del futuro del club o una condanna intorno alla quale si sta intossicando il sentimento bianconero? «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Quando Vince Lombardi, leggendario coach della NFL, una specie di Trapattoni del football americano, parafrasò il motto di monsieur De Coubertin, inventore delle Olimpiadi moderne, non pensava di creare uno slogan così duraturo nel tempo e certamente non voleva esprimere in modo letterale quel concetto. Era un modo per caricare i suoi giocatori prima di una partita importante, espandendo in modo roboante uno dei pilastri della sua filosofia agonistica, bene espressa in un’altra sua frase: «Vincere non è tutto, ma la volontà di vittoria sì». D’altra parte, chi volesse immaginarsi Lombardi può fare riferimento alla magistrale interpretazione di Al Pacino in “Ogni maledetta domenica”, il cui protagonista è fortemente ispirato alla vita dello stesso Lombardi, compreso l’epico discorso nello spogliatoio.
Quando Giampiero Boniperti, nelle vesti di presidente (leggendario almeno quanto Vince Lombardi), riprese quel motto lo aveva trovato tutto sommato in linea con la filosofia del senatore Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, che usava dire: «Una cosa fatta bene può sempre essere fatta meglio», ovvero tendere sempre al massimo, non accontentarsi mai.

La frase diventata motto

E forse neppure lui si aspettava che intorno a quella frase, indubbiamente a effetto, si attorcigliasse la vita del club e il modo di pensare dei suoi tifosi. Qualcosa però è andato storto nel corso degli anni, perché il concetto di vittoria (cui la Juventus ha il dovere sportivo di tendere sempre) ha reso eccessivamente binario il sentimento di milioni di persone che la amano: se vinci, sono felice e ti sono vicino; se perdi, sono frustrato, ti critico in tutto e ti abbandono. Senza avere granché nel mezzo di queste due vette. Sì, d’accordo, non per tutti è così e non sempre è così, ma è innegabile che, con tutte le eccezioni e i dovuti distinguo, negli ultimi quarant’anni il sentimento del tifoso juventino ha spesso obbedito a questa dinamica. Il successo è stato il principale (in certi casi l’unico) carburante che ha alimentato la passione juventina. Quando la squadra vince è difficile fare entrare uno spillo allo stadio, quando la squadra infila una stagione più deludente compaiono i vuoti sugli spalti. E se la presenza allo stadio può essere influenzata da altri fattori per primo quello economico (per quanto nessuno discutesse i prezzi sopra la media nel 2015 o nel 2017 quando la Juventus stravinceva), testimoniano il legame fra risultati e calore del tifoso quasi tutti i termometri utilizzati per misurare l’entusiasmo bianconero dai social alle iscrizioni agli Juventus club, dalle vendite di prodotti editoriali al merchandising.

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La risposta non è netta

La Juventus è, quindi, condannata (o addirittura si è autocondannata) a vincere sempre e comunque per soddisfare i suoi tifosi? Non c’è altro modo di sentirsi juventini appagati che non sia il successo? La risposta non può essere netta, ma pende più per il sì che per il no, sostanzialmente perché, nel corso dei decenni, i cicli di vittorie si sono susseguiti con una certa regolarità, lasciando poco spazio alla crescita di altri valori a cui agganciare la fede dei tifosi. E la filosofia del «vincere è l’unica cosa che conta», soprattutto negli ultimi trent’anni, ha prevalso su ogni tendenza. Andrea Agnelli ha provato, con un certo successo, a correggere leggermente il tiro del pensiero juventino, amplificando e istituzionalizzando quel «fino alla fine» che già faceva parte dei cori di curva. Infatti, il non darsi mai per vinti, spingendo senza tregua, credendo sempre e comunque di potercela fare è entrato nella cultura juventina, ma non ancora abbastanza da far sì che una sconfitta venga digerita bene qualora la squadra abbia dato tutto. Per i tifosi una sconfitta è una sconfitta, punto. E scatena sempre malcontento. Una serie di risultati negativi, poi, apre le cateratte della frustrazione insieme a una ricerca piuttosto feroce dei colpevoli da condannare o cacciare. In un crescendo iniziato negli Anni 70, il tifoso juventino è diventato il più esigente in Italia e uno dei più esigenti in Europa, dove compete con quello del Real Madrid e di una ristretta manciata di altri top club. L’incredibile serie dei nove scudetti consecutivi (con contorno di cinque Coppe Italia) ha ulteriormente cementato questo atteggiamento, fino al punto di arrivare a festeggiare tiepidamente gli ultimi titoli del ciclo. D’altra parte, Gianluca Vialli lo spiegava bene già diversi anni fa: «Alla Juventus la vittoria non dà felicità, ma sollievo. È il completamento di un dovere, non il raggiungimento di una vetta».

Nella stagione del post Calciopoli...

Tutto ciò è giusto o sbagliato? La domanda è pesante soprattutto quando le cose vanno male, perché la spietatezza aumenta la pressione e finisce per diventare fardello. Ma la risposta va cercata nelle pieghe del motto bonipertiano e nelle intenzioni di Boniperti stesso. Da uomo di sport, il capitano e presidente juventino, sapeva benissimo che l’ambizione è il motore degli autentici campioni e delle grandi squadre, così come l’accontentarsi o il crogiolarsi sui successi è il peggior nemico di chi sogna in grande. Insomma, il valore non è la vittoria in sé, ma il tendere sempre a quella, sacrificandosi e lavorando senza nessun compromesso. È una sottile differenza, ma segna il confine fra un tifoso che ama la propria la squadra e un tifoso che ama vincere e basta. In fondo, nella stagione del post Calciopoli, c’era stato il potentissimo esempio dei campioni del mondo finiti a giocare in Serie B pur di rimanere alla Juventus, dando una rappresentazione massima di un vero senso di appartenenza e i tifosi che avevano affollato lo stadio in quell’annata ne erano stati lo specchio popolare. Si parlò di “orgoglio gobbo”, riscoperto in B, dopo anni di vittorie e dominio. Ed effettivamente l’orgoglio gobbo esiste e resiste: forse è difficile definirlo perché non passa mai molto tempo prima che la squadra torni a conquistare qualcosa, riportando la vittoria al centro dei valori bianconeri, ma indubbiamente c’è e ha certamente a che fare anche con la famiglia Agnelli, proprietaria del club per cento anni e quindi punto di riferimento fisso per generazioni di bianconeri.

La famiglia Agnelli

Il fatto che Gianni Agnelli, icona dell’uomo potente e irraggiungibile nell’immaginario collettivo, provasse le stesse ribollenti emozioni di un qualsiasi tifoso juventino è, per esempio, un elemento fondante della trasversalità dell’amore bianconero. Così come Umberto Agnelli, in apparenza austero e distaccato, ma nei fatti progettista e realizzatore delle più grandi (e folli) colpi di mercato della storia bianconera ha in qualche modo dettato silenziosamente una linea che unisce stile e passione. Andrea Agnelli è la sintesi moderna dei due, in un epoca distante per usi e costumi, ma di immutata eccitazione del Paese per il calcio e la Juventus. Loro tre, così come tutti i rappresentanti della famiglia (dal fondatore della Fiat Giovanni a John e Lapo Elkann) non hanno mai abbandonato la squadra per un secolo, soprattutto quando non vinceva. È, insomma, nelle pieghe delle sconfitte che va trovata l’essenza di una squadra che si è data per motto la ricerca spasmodica della vittoria. Paradossalmente, o forse no.

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La risposta non è netta

La Juventus è, quindi, condannata (o addirittura si è autocondannata) a vincere sempre e comunque per soddisfare i suoi tifosi? Non c’è altro modo di sentirsi juventini appagati che non sia il successo? La risposta non può essere netta, ma pende più per il sì che per il no, sostanzialmente perché, nel corso dei decenni, i cicli di vittorie si sono susseguiti con una certa regolarità, lasciando poco spazio alla crescita di altri valori a cui agganciare la fede dei tifosi. E la filosofia del «vincere è l’unica cosa che conta», soprattutto negli ultimi trent’anni, ha prevalso su ogni tendenza. Andrea Agnelli ha provato, con un certo successo, a correggere leggermente il tiro del pensiero juventino, amplificando e istituzionalizzando quel «fino alla fine» che già faceva parte dei cori di curva. Infatti, il non darsi mai per vinti, spingendo senza tregua, credendo sempre e comunque di potercela fare è entrato nella cultura juventina, ma non ancora abbastanza da far sì che una sconfitta venga digerita bene qualora la squadra abbia dato tutto. Per i tifosi una sconfitta è una sconfitta, punto. E scatena sempre malcontento. Una serie di risultati negativi, poi, apre le cateratte della frustrazione insieme a una ricerca piuttosto feroce dei colpevoli da condannare o cacciare. In un crescendo iniziato negli Anni 70, il tifoso juventino è diventato il più esigente in Italia e uno dei più esigenti in Europa, dove compete con quello del Real Madrid e di una ristretta manciata di altri top club. L’incredibile serie dei nove scudetti consecutivi (con contorno di cinque Coppe Italia) ha ulteriormente cementato questo atteggiamento, fino al punto di arrivare a festeggiare tiepidamente gli ultimi titoli del ciclo. D’altra parte, Gianluca Vialli lo spiegava bene già diversi anni fa: «Alla Juventus la vittoria non dà felicità, ma sollievo. È il completamento di un dovere, non il raggiungimento di una vetta».

Nella stagione del post Calciopoli...

Tutto ciò è giusto o sbagliato? La domanda è pesante soprattutto quando le cose vanno male, perché la spietatezza aumenta la pressione e finisce per diventare fardello. Ma la risposta va cercata nelle pieghe del motto bonipertiano e nelle intenzioni di Boniperti stesso. Da uomo di sport, il capitano e presidente juventino, sapeva benissimo che l’ambizione è il motore degli autentici campioni e delle grandi squadre, così come l’accontentarsi o il crogiolarsi sui successi è il peggior nemico di chi sogna in grande. Insomma, il valore non è la vittoria in sé, ma il tendere sempre a quella, sacrificandosi e lavorando senza nessun compromesso. È una sottile differenza, ma segna il confine fra un tifoso che ama la propria la squadra e un tifoso che ama vincere e basta. In fondo, nella stagione del post Calciopoli, c’era stato il potentissimo esempio dei campioni del mondo finiti a giocare in Serie B pur di rimanere alla Juventus, dando una rappresentazione massima di un vero senso di appartenenza e i tifosi che avevano affollato lo stadio in quell’annata ne erano stati lo specchio popolare. Si parlò di “orgoglio gobbo”, riscoperto in B, dopo anni di vittorie e dominio. Ed effettivamente l’orgoglio gobbo esiste e resiste: forse è difficile definirlo perché non passa mai molto tempo prima che la squadra torni a conquistare qualcosa, riportando la vittoria al centro dei valori bianconeri, ma indubbiamente c’è e ha certamente a che fare anche con la famiglia Agnelli, proprietaria del club per cento anni e quindi punto di riferimento fisso per generazioni di bianconeri.

La famiglia Agnelli

Il fatto che Gianni Agnelli, icona dell’uomo potente e irraggiungibile nell’immaginario collettivo, provasse le stesse ribollenti emozioni di un qualsiasi tifoso juventino è, per esempio, un elemento fondante della trasversalità dell’amore bianconero. Così come Umberto Agnelli, in apparenza austero e distaccato, ma nei fatti progettista e realizzatore delle più grandi (e folli) colpi di mercato della storia bianconera ha in qualche modo dettato silenziosamente una linea che unisce stile e passione. Andrea Agnelli è la sintesi moderna dei due, in un epoca distante per usi e costumi, ma di immutata eccitazione del Paese per il calcio e la Juventus. Loro tre, così come tutti i rappresentanti della famiglia (dal fondatore della Fiat Giovanni a John e Lapo Elkann) non hanno mai abbandonato la squadra per un secolo, soprattutto quando non vinceva. È, insomma, nelle pieghe delle sconfitte che va trovata l’essenza di una squadra che si è data per motto la ricerca spasmodica della vittoria. Paradossalmente, o forse no.

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