Che cosa ha lasciato in eredità alla Continassa?
«Sono orgoglioso di aver creato un metodo di lavoro e una struttura scouting che ha portato a individuare giovani di qualità con una continuità che mai si era vista prima nel club. Soltanto qualche anno fa pareva impossibile che la Juventus sposasse una politica attraverso la quale giocare d’anticipo sui giovani, ingaggiandoli quando ancora sono poco conosciuti e poco cari. Sono serviti pianificazione e coraggio, ma anche strumenti preziosi come la seconda squadra. La Juventus attraeva giocatori affermati nella seconda parte della loro carriera, oggi è diventata una calamita per i giovani che vogliono completare il loro percorso di crescita».
Ma quante partite bisogna vedere e quante schede occorre stilare per scovare, per esempio, un talento come Huijsen o come Yildiz?
«Prima ancora dei numeri, in realtà, viene la visione del club. Il progetto sportivo che viene presentato e come viene comunicato al giovane e al suo entourage fanno la differenza. Non è per forza una questione di soldi o di prestigio della società: è più importante spiegare nel dettaglio i passaggi di sviluppo della carriera, anno dopo anno. La Juventus oggi non è il club in cui è più facile arrivare alla prima squadra, ma è il migliore in cui un giovane possa formarsi».
Quindi i rapporti umani contano più dei big data?
«In questo ambito a determinare sono le persone, con il loro coraggio e con la loro sensibilità nel valutare un talento e anche una situazione. I giovani che oggi si stanno affacciando alla prima squadra della Juventus sono calciatori bravi, ma soprattutto sono ragazzi “giusti”, con una mentalità idonea a emergere. La sinergia tra le persone e quella tra i giocatori e il club sono fondamentali. Bisogna creare una realtà in cui il talento sia “comodo”, a proprio agio».
E come si individua, tra tanti, il talento su cui puntare?
«Osservandolo da vicino, intanto: i dati sono sempre più importanti, io per primo mi appoggio a ore e ore di video, ma il riscontro del campo resta imprescindibile. Sono della vecchia scuola, in questo senso. E poi è cruciale il momento dell’incontro con il giovane e con la sua famiglia. Occorre comprendere la realtà che lo circonda, qual è il suo carattere, come interagisce con gli adulti».
Così lei si è ritrovato in mezzo a una bufera di neve, in Spagna, pur di studiare da vicino Huijsen prima di portarlo alla Juventus?
«Esattamente. E, corsi e ricorsi storici, ero proprio a Granada, dove oggi lavoro, per una partita contro il Malaga del campionato iberico Under 16. Ma per strappare Kaio Jorge al Santos, nell’estate del 2021, mi era anche andata peggio. C’erano ancora numerose restrizioni per il Covid e potevo soggiornare in Brasile per un massimo di cinque giorni se volevo evitare la quarantena. Ma la trattativa è andata per le lunghe, sono rimasto chiuso in albergo con i suoi agenti per una settimana e al rientro mi hanno imposto l’isolamento: avevo trascorso il Ferragosto da solo quell’anno, barricato in una camera del J Hotel...».