Pagina 4 | Tognozzi esclusivo: “Bellingham-Juve, la verità. Haaland fu ad un passo”

Basta pronunciare il nome di un giovane talento che nella testa di Matteo Tognozzi si spalanca un cassetto che straripa di curiosità, episodi, ricordi. Tutti raccontati con un’enfasi tale da tradire la passione che lo lega al suo lavoro e da giustificare il luccichio che d’improvviso riflettono i suoi occhi. La mole di aneddoti che snocciola senza sosta lascia soltanto immaginare il sottobosco abitato da tutti quelli che non potrà mai rivelare, dopo aver recentemente chiuso un ciclo di sei anni e mezzo alla Juventus, di cui gli ultimi cinque da capo dell’area scouting. C’è la volta in cui Bellingham è stato a un passo dai bianconeri e quella in cui ha visto accarezzare il pallone a Soulé a soli 11 anni. Quella in cui ha lavorato dietro le quinte per portare Vlahovic a Torino e quella in cui ha invece cercato di nascondere l’ingaggio già perfezionato di Yildiz. Un caleidoscopio di rivelazioni attraverso cui alla fin fine si scopre che, nei ruggenti anni dei big data, a far la differenza sono ancora le partite osservate a bordo campo e i rapporti costruiti con le persone. 

  


Matteo Tognozzi, innanzitutto: come si trova nelle inedite vesti di direttore sportivo del Granada, in Liga, ruolo assunto tre settimane fa soltanto? 
«Iniziare il lavoro a ottobre è piuttosto insolito, ma la proposta mi ha subito affascinato e avevo voglia di iniziare il prima possibile. A tal proposito, devo ringraziare la Juventus che mi ha concesso l’opportunità di firmare a stagione in corso. Conoscevo già strutture, persone e, soprattutto, potenzialità del club spagnolo: ho ricevuto diverse offerte, ma questa era la più intrigante. In Spagna sto vivendo giornate piene ed entusiasmanti». 
 
Che ruolo ha giocato la possibilità di vivere la sua prima esperienza da ds, dopo tanta esperienza nell’area scouting? 
«Avvertivo effettivamente l’esigenza di questo passo, soprattutto dopo aver completato il corso a Coverciano. Ho soltanto 36 anni, ma già da 15 lavoro nel settore: la proposta del Granada si è sposata alla perfezione con il desiderio che stavo iniziando a covare». 
 
Detto del perché è approdato al Granada, c’è anche un perché ha lasciato la Juventus? 
«Dopo sei anni e mezzo, forse, si è semplicemente chiuso un cerchio. Sarei potuto restare a Torino per godere dei risultati che stavano arrivando, ma la mia indole mi spinge a cercare sempre nuovi stimoli. Con il direttore Giuntoli ci conosciamo da tempo e si era subito instaurato un ottimo rapporto, ma alla Juventus avevo raggiunto i miei obiettivi. Ora ne cerco di nuovi». 

 

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Che cosa ha lasciato in eredità alla Continassa? 
«Sono orgoglioso di aver creato un metodo di lavoro e una struttura scouting che ha portato a individuare giovani di qualità con una continuità che mai si era vista prima nel club. Soltanto qualche anno fa pareva impossibile che la Juventus sposasse una politica attraverso la quale giocare d’anticipo sui giovani, ingaggiandoli quando ancora sono poco conosciuti e poco cari. Sono serviti pianificazione e coraggio, ma anche strumenti preziosi come la seconda squadra. La Juventus attraeva giocatori affermati nella seconda parte della loro carriera, oggi è diventata una calamita per i giovani che vogliono completare il loro percorso di crescita». 


Ma quante partite bisogna vedere e quante schede occorre stilare per scovare, per esempio, un talento come Huijsen o come Yildiz? 
«Prima ancora dei numeri, in realtà, viene la visione del club. Il progetto sportivo che viene presentato e come viene comunicato al giovane e al suo entourage fanno la differenza. Non è per forza una questione di soldi o di prestigio della società: è più importante spiegare nel dettaglio i passaggi di sviluppo della carriera, anno dopo anno. La Juventus oggi non è il club in cui è più facile arrivare alla prima squadra, ma è il migliore in cui un giovane possa formarsi». 
 
Quindi i rapporti umani contano più dei big data? 
«In questo ambito a determinare sono le persone, con il loro coraggio e con la loro sensibilità nel valutare un talento e anche una situazione. I giovani che oggi si stanno affacciando alla prima squadra della Juventus sono calciatori bravi, ma soprattutto sono ragazzi “giusti”, con una mentalità idonea a emergere. La sinergia tra le persone e quella tra i giocatori e il club sono fondamentali. Bisogna creare una realtà in cui il talento sia “comodo”, a proprio agio». 
 
E come si individua, tra tanti, il talento su cui puntare? 
«Osservandolo da vicino, intanto: i dati sono sempre più importanti, io per primo mi appoggio a ore e ore di video, ma il riscontro del campo resta imprescindibile. Sono della vecchia scuola, in questo senso. E poi è cruciale il momento dell’incontro con il giovane e con la sua famiglia. Occorre comprendere la realtà che lo circonda, qual è il suo carattere, come interagisce con gli adulti». 
 
Così lei si è ritrovato in mezzo a una bufera di neve, in Spagna, pur di studiare da vicino Huijsen prima di portarlo alla Juventus? 
«Esattamente. E, corsi e ricorsi storici, ero proprio a Granada, dove oggi lavoro, per una partita contro il Malaga del campionato iberico Under 16. Ma per strappare Kaio Jorge al Santos, nell’estate del 2021, mi era anche andata peggio. C’erano ancora numerose restrizioni per il Covid e potevo soggiornare in Brasile per un massimo di cinque giorni se volevo evitare la quarantena. Ma la trattativa è andata per le lunghe, sono rimasto chiuso in albergo con i suoi agenti per una settimana e al rientro mi hanno imposto l’isolamento: avevo trascorso il Ferragosto da solo quell’anno, barricato in una camera del J Hotel...». 

 

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Ne è valsa la pena? 
«Resto convinto di sì. Kaio è stato sfortunato, perché è incorso in un grave infortunio proprio mentre stava ultimando il periodo di ambientamento in Italia, ma ha doti fuori dal comune. E già nei prossimi sei mesi, a Frosinone, farà vedere quanto vale».  
 
Qual è, invece, l’acquisto di cui va più orgoglioso? 
«Per non far torto a nessuno dei giovani che ho portato alla Juventus, ai quali sono molto legato, rispondo Vlahovic. Giocare un ruolo in quella trattativa, per me, è stata un’esperienza straordinaria. Avevo lavorato a lungo, dietro le quinte, per costruire un rapporto con lui e con i suoi agenti: quanti viaggi per entrare in confidenza con persone che mai avevano interagito con il club prima di quel momento. Grazie alle relazioni intessute, però, quando è nata quasi all’improvviso la possibilità di acquistarlo in inverno, siamo stati pronti per farlo. Ma, in generale, ripenso con orgoglio a tutte le trattative con cui ho portato a Torino dei giovani di 15 o 16 anni che poi hanno debuttato in prima squadra». 
 
In questo avvio di stagione, in Serie A, sta imperversando Soulé: com’era nata la sua operazione? 
«Ho visto Matias dal vivo, per la prima volta, in un Velez-Boca del campionato argentino Under 12, lui aveva 11 anni perché giocava già sotto età. Ovviamente allora non poteva firmare per noi, solo che qualche tempo dopo si era messo in mostra con l’Argentina nel corso di un torneo in Algarve cui presenziavano gli osservatori di tutto il mondo: il vantaggio di conoscerlo da tempo sarebbe potuto andare in fumo, invece proprio grazie al rapporto costruito in quegli anni al momento del grande salto in Europa ha voluto soltanto la Juventus, nonostante fossero pronti a far carte false per lui almeno 10-12 grandi club». 
 
Altro nome, altro aneddoto: cosa ci può raccontare della trattativa per Yildiz? 
«Kenan l’abbiamo strappato a zero al Bayern Monaco nei giorni in cui il loro ds Salihamidzic era a Torino per chiudere De Ligt. In giro si diceva che il giovane turco stesso per firmare per il Barcellona e non l’abbiamo lasciato credere a tutti per un po’… temevamo che l’operazione potesse avere ripercussioni sulla cessione per oltre 80 milioni del difensore!» 
 
E poi Huijsen, e poi ancora Iling-Junior: quanto c’è di Tognozzi nell’attuale Juventus? 
«La mano si nota, ma non è soltanto la mia. È quella di tutte le anime di un gruppo scout ing strutturato, suddiviso tra mercato italiano, mercato internazionale e mercato prima squadra. E sono felice che sia Allegri a lavorare con tutti questi giovani: è il tecnico ideale per tirar fuori il loro meglio». 

 

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A tal proposito, cosa vi ha portato nell’ultima estate a puntare su Weah? 
«Si dice che il mercato “dei grandi” sia più semplice, ma nel suo caso ci siamo presi un bel rischio: Timothy aveva poco storico come esterno difensivo. Lo conoscevamo dai tempi in cui era un attaccante nel vivaio del Psg, ma il suo caso conferma l’importanza di continuare a osservare anche a livello di prime squadre: ci siamo convinti delle sue qualità un anno fa, quando Fonseca l’ha abbassato di posizione, andando a vedere in giro per l’Europa tutte le amichevoli del Lille durante la sosta invernale per l’ultimo Mondiale». 
 
Ci ha svelato i nomi delle scoperte di cui più va orgoglioso, i più grandi rimpianti invece quali sono? 
«Penso sicuramente a Bellingham, cui siamo stati vicini nel 2019. Tra pochi giorni lo incrocerò al Bernabeu e mi fa un certo effetto ripensare a quando avevo conosciuto lui e la sua straordinaria famiglia: è un ricordo che custodisco gelosamente. In quel caso, però, aveva semplicemente deciso di proseguire il percorso di crescita nel suo club di sempre, ovvero il Birmingham. Invece...» 
 
Invece? 
«Siamo stati davvero a un passo da Haaland. Era il mese di novembre del 2017, io ero arrivato in luglio, quindi è stato uno dei primi contatti che ho stretto alla Juventus, in quel caso insieme a Cherubini. Il fatto è che nel mercato della prima squadra c’è tempo per lavorare alle trattative, con i giovani in pochi giorni può cambiare tutto. Ce l’avevamo in mano, ma ai tempi sarebbe stato un innesto per la Primavera e l’operazione venne giudicata troppo onerosa per rinforzare il vivaio. Allora faceva ancora panchina al Molde, ma nel giro di poche settimane iniziò a giocare e a segnare, così tutti si avventarono su di lui. E un club come il Salisburgo potè prospettargli un rapido inserimento in prima squadra. Molti scout vivono queste situazioni con frustrazione, ma lavorando a stretto contatto con la direzione sportiva ho capito che è inevitabile: resta la consapevolezza di aver lavorato bene». 
 
Cambiando prospettiva, da quel che è stato a quel che sarà: ci svela il prossimo talento della Juventus destinato a sbocciare? 
«Intanto tra poco arriverà Nonge Boende, il cui debutto in prima squadra è vicino: il suo talento è incredibile, lo metto sullo stesso piano dei coetanei Huijsen e Yildiz. E poi dico Mazur, che è un centrocampista del 2007 dotato di tecnica, fisico e personalità. Ha davvero grande prospettiva. È stato il mio ultimo acquisto alla Juventus e vedo tutti i presupposti perché segua le orme di chi oggi è agli ordini di Allegri». 
 
Per concludere: dove vede Granada e Juventus a fine stagione? 
«Il Granada ancora in Liga, sicuramente. E la Juventus di nuovo in Champions League». 

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A tal proposito, cosa vi ha portato nell’ultima estate a puntare su Weah? 
«Si dice che il mercato “dei grandi” sia più semplice, ma nel suo caso ci siamo presi un bel rischio: Timothy aveva poco storico come esterno difensivo. Lo conoscevamo dai tempi in cui era un attaccante nel vivaio del Psg, ma il suo caso conferma l’importanza di continuare a osservare anche a livello di prime squadre: ci siamo convinti delle sue qualità un anno fa, quando Fonseca l’ha abbassato di posizione, andando a vedere in giro per l’Europa tutte le amichevoli del Lille durante la sosta invernale per l’ultimo Mondiale». 
 
Ci ha svelato i nomi delle scoperte di cui più va orgoglioso, i più grandi rimpianti invece quali sono? 
«Penso sicuramente a Bellingham, cui siamo stati vicini nel 2019. Tra pochi giorni lo incrocerò al Bernabeu e mi fa un certo effetto ripensare a quando avevo conosciuto lui e la sua straordinaria famiglia: è un ricordo che custodisco gelosamente. In quel caso, però, aveva semplicemente deciso di proseguire il percorso di crescita nel suo club di sempre, ovvero il Birmingham. Invece...» 
 
Invece? 
«Siamo stati davvero a un passo da Haaland. Era il mese di novembre del 2017, io ero arrivato in luglio, quindi è stato uno dei primi contatti che ho stretto alla Juventus, in quel caso insieme a Cherubini. Il fatto è che nel mercato della prima squadra c’è tempo per lavorare alle trattative, con i giovani in pochi giorni può cambiare tutto. Ce l’avevamo in mano, ma ai tempi sarebbe stato un innesto per la Primavera e l’operazione venne giudicata troppo onerosa per rinforzare il vivaio. Allora faceva ancora panchina al Molde, ma nel giro di poche settimane iniziò a giocare e a segnare, così tutti si avventarono su di lui. E un club come il Salisburgo potè prospettargli un rapido inserimento in prima squadra. Molti scout vivono queste situazioni con frustrazione, ma lavorando a stretto contatto con la direzione sportiva ho capito che è inevitabile: resta la consapevolezza di aver lavorato bene». 
 
Cambiando prospettiva, da quel che è stato a quel che sarà: ci svela il prossimo talento della Juventus destinato a sbocciare? 
«Intanto tra poco arriverà Nonge Boende, il cui debutto in prima squadra è vicino: il suo talento è incredibile, lo metto sullo stesso piano dei coetanei Huijsen e Yildiz. E poi dico Mazur, che è un centrocampista del 2007 dotato di tecnica, fisico e personalità. Ha davvero grande prospettiva. È stato il mio ultimo acquisto alla Juventus e vedo tutti i presupposti perché segua le orme di chi oggi è agli ordini di Allegri». 
 
Per concludere: dove vede Granada e Juventus a fine stagione? 
«Il Granada ancora in Liga, sicuramente. E la Juventus di nuovo in Champions League». 

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