Juventus, nel nome e nell'anima: nata da un sogno, una storia unica nello sport

Il club festeggia 127 anni di storia: un compleanno raccontato tra la panchina di Corso Re Umberto, le maglie a strisce di Savage e le leggende della squadra

La sera del primo novembre 1897 erano tutti adolescenti. Età media 15 anni, alzata un poco dai fratelli Canfari che ne avevano 19 e 20. La Juventus nasce giovane e giovane rimane per sempre, non solo per il nome (scelto fra tanti, senza intuirne subito il potenziale, anzi Domenico Donna ironizzava: "Fu l'unico a mettere d'accordo perché non piaceva veramente a nessuno"). La Juventus oggi festeggia 127 anni, 101 dei quali sotto la stessa proprietà della famiglia Agnelli. E li festeggia nel mezzo di una rivoluzione, l'ennesima della sua storia, che ha scelto i giovani come protagonisti. La rosa di Thiago Motta (giovane allenatore) ha l'età media di 24 anni, che più o meno sono i 15 di un secolo fa. Ci credevano i ragazzi di Corso Re Umberto, ci devono credere quelli di oggi. Il segreto, 127 anni dopo, rimane quello.

Juve, il sogno nato da una panchina

Sono seduti sulla panchina di Corso Re Umberto in una fredda mattina d’autunno di fine Anni 50. Dentro lo sguardo sperso del quasi ottantenne Umberto Malvano c’è il racconto di un’altra Torino. Sì la panchina è quella, è senza dubbio quella, non la potrebbe dimenticare mai, ma intorno... intorno era tutto diverso nel 1897, quando aveva 13 anni e il traffico lasciava più spazio ai sogni di un ragazzo. Accanto a lui c’è Luigi Bertolini, uomo chiave della Juventus del Quinquennio d’oro e della prima Nazionale campione del mondo nel 1934, sembra più a suo agio nello scenario: "Quindi era qui che vi trovavate?". Malvano annuisce e con un sospiro corre indietro ai tempi del liceo. Non ha bisogno di girarsi nella direzione del Massimo D’Azeglio che, anche adesso che usa il bastone, non dista più di cinque minuti a piedi. "Finivano le lezioni e non c’era bisogno di darsi appuntamento. Ci si fiondava tutti qui alla panchina, sempre questa. Quando ci sembrava di essere tutti, ci spostavamo in Piazza d’Armi che all’epoca era là, dove adesso hanno costruito quei palazzi. Lì ci raggiungevano i ritardatari e lì trovavamo i fratelli Canfari, quando non erano impegnati con la loro officina".

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"Juve, il nome più naturale"

"E chi portava il pallone?", chiede d’istinto Bertolini, conscio che - da sempre e per sempre - il proprietario dell’attrezzo è un personaggio fondamentale nella commedia del “futbol”. "Il pallone lo avevamo comprato in società. Ognuno aveva messo una quota. Magari vendendo un libro di scuola dell’anno prima o rinunciando a una settimana di merende. Tutte le paghette erano confluite nella cassa pallone, che infine era stato acquistato in un negozio che vendeva oggetti esotici e pezzi di importazione inglese. Era di cuoio e aveva dei bottoni ai poli, che sconsigliavano il gioco di testa, d’altronde poco praticato all’epoca. Il giorno dell’acquisto lo avevamo messo qui sulla panchina ed eravamo rimasti a guardarlo per un po’, in totale silenzio e un pensiero all’unisono: così bello che è un peccato prenderlo a calci. Non durò molto. Un paio di partite e si deformò tutto. Quindi altra colletta e missione da un calzolaio perché ce ne fabbricasse uno più resistente. Detto, fatto. Eseguì l’ordine, utilizzando il cuoio che si usa per risuolare le scarpe e, ti garantisco, che era come giocare con un sasso".

Ridono tutti e due: un calciatore è un calciatore, non importa quando abbia giocato e quanti anni abbia. "Poi arrivano i palloni inglesi, quelli veri, tutta un’altra storia. Sai, gli inglesi erano stati determinanti per noi. Li avevamo visti giocare al Parco del Valentino, sul Patinoire che, d’estate, era un campo perfetto. Giocavano e gridavano, sembravano divertirsi un mondo a correre dietro a quel pallone. Noi stavamo lì a bocca aperta per capire la logica e le regole di quel gioco, poi ci provavamo in Piazza d’Armi. Qualcuno di loro ci raggiungeva e ci spiegava qualcosa. L’idea di fondare una squadra nacque in quei mesi estivi del 1897, ma prima dell’autunno non ci eravamo ancora organizzati. Il primo novembre ci trovammo nell’officina dei Canfari, gli unici che non venivano al D’Azeglio, erano più grandi di noi e avevano un’officina per riparare biciclette, moto e auto lì dietro. E in quella riunione l’idea di fondare un club prese corpo. Avevamo tutti fra i 13 e i 15 anni, i fratelli Canfari di diciannove e ventuno anni erano i più 'vecchi', il nome Juventus non lo trovammo subito, ma fu il più naturale di tutti. Capisci, eravamo dei ragazzini che volevano giocare a pallone e abbiamo fondato la Juventus".

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Le maglie a strisce di Savage

Per approvare il bilancio, all’epoca, non serviva un’assemblea. Si svuotavano le tasche su un banco del D’Azeglio e quello era il fatturato. Magro, di solito, anche se non c’erano debiti. È per questo che all’inizio la Juventus fu rosa. La scelta non era stata cromatica, ma economica: "Qual è la stoffa che costa meno?", dissero i ragazzi fondatori al commesso della merceria, che piazzò loro un avanzo di magazzino che era lì da un po’: "Percalle rosa! Vi faccio un prezzo da amico". Ma il percalle è sottile e le maglie diventano presto sottili come carta velina. Sono passati quattro anni dalla fondazione, si è unito anche qualche inglese al gruppo di ragazzi, uno di loro, Tom Gordon Savage (trascritto a volte come John) si offre di acquistare le nuove maglie, direttamente dall’Inghilterra. Era il 1901 (e non il 1903 come spesso viene erroneamente riportato) e Savage scelse le maglie della sua squadra del cuore in Inghilterra, il Notts County, a strisce bianche e nere, segnando il destino di un club destinato a scrivere la storia più del vecchio Notts, che, all’epoca, aveva già quarant’anni. E unendo, indissolubilmente, le tifoserie dei due club, ancora oggi gemellate dopo oltre un secolo: potere della maglia.

Orsi, dribbling e gol a ritmo di tango

In 127 anni sono state tante le Juventus forti, qualcuna è stata leggendaria. Cicli si sono ripetuti e allacciati tra di loro come una collana. Ma la prima grande Juventus è quella del Quinquennio dal 1930 al 1935, una squadra pensata in modo moderno, mettendo insieme i migliori talenti dell'epoca, costruendola grazie agli osservatori sparsi in tutto il mondo, compreso il Sudamerica e allenata con metodi avveniristici (compresi gli allenamenti "a secco" in palestra). In quella Juventus c'erano Renato Cesarini e Mumo Orsi, due oriundi argentini che hanno cambiato il calcio. Abitudini sopra le righe, amanti del tango, soprattutto se ballato dalle due alle cinque del mattino, ma capaci di ballare anche in campo, anzi di far ballare gli avversari. Mumo Orsi, scriveva Carlin, cofondatore di Tuttosport, aveva "cambiato il modo di giocare a calcio". Era un'ala sinistra, piccola e agile, ma aveva una tecnica micidiale e piedi raffinati, per cui spesso partiva dalla fascia e si accentrava per tirare. Oggi è la cosa più normale del mondo, nel 1932 era qualcosa che sconvolgeva avversari e critici. Orsi, insieme agli eroi del Quinquennio, è stato uno dei primi fuoriclasse in bianconero, una collezione iniziata cento anni fa e non ancora finita.

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Edoardo Agnelli e le prime calciatrici

Era nel destino. Ma il destino a volte non è casuale e c'è un filo fatto di idee visionarie che lega Edoardo Agnelli e suo nipote Andrea, anche se non si sono mai conosciuti. Nel 1923, Edoardo diventava il primo Agnelli presidente della Juventus e cambiò il calcio con le sue idee. O per lo meno ci provò. Quando vide che a giocare d'estate alle tre del pomeriggio si moriva di caldo, installò i primi riflettori sul campo di Corso Marsiglia (li aveva visti negli Stati Uniti) e chiese di giocare delle partite in notturna. "Figuriamoci, non si giocherà mai a calcio in notturna", gli risposero dalla Federazione, allora come oggi molto avanti con la visione del calcio. I riflettori vennero usati per consentire di allenarsi anche d'inverno nel tardo pomeriggio, così che chi aveva turni in fabbrica o in ufficio non dovesse chiedere permessi.

E nel 1924, esattamente cento anni fa, provò anche a coinvolgere le donne nel calcio, mettendo insieme coraggiose pioniere (anche a Milano, sponda rossonera, c'erano stati vagiti di calcio femminile anni prima). Fu un esperimento, giudicato eccentrico dalle cronache cittadine, e quindi abbandonato presto. "In futuro, chissà", aveva pensato Edoardo, senza sapere che suo nipote le Women le portò davvero a vestire la maglia bianconera.

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La sera del primo novembre 1897 erano tutti adolescenti. Età media 15 anni, alzata un poco dai fratelli Canfari che ne avevano 19 e 20. La Juventus nasce giovane e giovane rimane per sempre, non solo per il nome (scelto fra tanti, senza intuirne subito il potenziale, anzi Domenico Donna ironizzava: "Fu l'unico a mettere d'accordo perché non piaceva veramente a nessuno"). La Juventus oggi festeggia 127 anni, 101 dei quali sotto la stessa proprietà della famiglia Agnelli. E li festeggia nel mezzo di una rivoluzione, l'ennesima della sua storia, che ha scelto i giovani come protagonisti. La rosa di Thiago Motta (giovane allenatore) ha l'età media di 24 anni, che più o meno sono i 15 di un secolo fa. Ci credevano i ragazzi di Corso Re Umberto, ci devono credere quelli di oggi. Il segreto, 127 anni dopo, rimane quello.

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Sono seduti sulla panchina di Corso Re Umberto in una fredda mattina d’autunno di fine Anni 50. Dentro lo sguardo sperso del quasi ottantenne Umberto Malvano c’è il racconto di un’altra Torino. Sì la panchina è quella, è senza dubbio quella, non la potrebbe dimenticare mai, ma intorno... intorno era tutto diverso nel 1897, quando aveva 13 anni e il traffico lasciava più spazio ai sogni di un ragazzo. Accanto a lui c’è Luigi Bertolini, uomo chiave della Juventus del Quinquennio d’oro e della prima Nazionale campione del mondo nel 1934, sembra più a suo agio nello scenario: "Quindi era qui che vi trovavate?". Malvano annuisce e con un sospiro corre indietro ai tempi del liceo. Non ha bisogno di girarsi nella direzione del Massimo D’Azeglio che, anche adesso che usa il bastone, non dista più di cinque minuti a piedi. "Finivano le lezioni e non c’era bisogno di darsi appuntamento. Ci si fiondava tutti qui alla panchina, sempre questa. Quando ci sembrava di essere tutti, ci spostavamo in Piazza d’Armi che all’epoca era là, dove adesso hanno costruito quei palazzi. Lì ci raggiungevano i ritardatari e lì trovavamo i fratelli Canfari, quando non erano impegnati con la loro officina".

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