Non avere ancora ventidue anni (li compie mercoledì: auguri), ma avere già un Masters 1000 nella sua bisaccia di tennista predestinato: a far godere l’Italia che aspetta un titolo maschile nel Grande Slam da anni quarantasette (Panatta, Parigi 1976; prima di Adriano, unicamente Pietrangeli, sempre al Roland Garros, 1959 e 1960: preistoria di questo meraviglioso sport, e non solo). Se non accadrà quest’anno – cioè agli US Open al via il 28 agosto – accadrà il prossimo, o in uno di quelli dopo. Ma accadrà: perché Jannik Sinner è, appunto, un predestinato. Come lo è Alcaraz, come pochi altri lo sono o lo sono stati. Come non lo sono Berrettini e Musetti, seppur dotati da madre natura di maggior talento nel fisico l’uno e nel tocco l’altro. Nessuno dei nostri, però, ha la testa, la tenacia, la consistenza, la resistenza, l’ostinazione e soprattutto la capacità di migliorarsi continuamente – gradino dopo gradino, dettaglio su dettaglio - del nostro formidabile “tedeschino”.
Sul cemento di Toronto, wonderful Canada, davanti a tredicimila spettatori, l’ottavo trionfo della carriera di Sinner è dunque il suo primo 1000. Mai realmente in discussione, né lungo la strada (aperta dal successo nel derby con Berrettini) né tantomeno in questa finale a senso unico contro l’amico De Minaur, inedito compare di doppio proprio qui nell’Ontario. Dove nei fumetti furoreggiavano i Lupi del Comandante Mark e stavolta furoreggia il capitano Jannik da San Candido, Alto Adige. In coppia erano usciti al primo turno, ma contro quelli (il salvadoregno Arevalo e l’olandese Rojer) che ieri hanno vinto il torneo. Nel singolo, invece, sono arrivati in fondo.