Di solito si scrive che bene soltanto agli industriali tessili che le producono: questo per dire dei misfatti del nazionalismo. Ma le bandiere allo stadio comunale di Torino, sventolate prima e durante e dopo Torino-Cesena, facevano del bene a chi le muoveva ed a chi le guardava, facevano vento sano, aria buona. Mai viste così tante bandiere, mai, neppure per comizi e repubbliche, processioni e sommosse, mai. Bandiere rosso sangue, bandiere bianche con cuore rosso, bandiere con tricolori, bandiere che erano fotografie della squadra ultima o dagherrotipi della squadra antica. Fu quando, un quarto d’ora prima dell’inizio, tutte le bandiere insieme vennero sventolate, e si bruciarono bengala rossi e bianchi e verdi, e piovvero coriandoli, che qualcuno cominciò a piangere, trovando al tempo stesso la fierezza della propria commozione. Fu in quel momento che qualche giornalista, compreso il sottoscritto, seppe che avrebbe scritto un articolo bruttissimo, inferiore ai desideri, alla situazione. Prima, girando la città rigata da auto vestite di rosso, passando accanto alla lapide di Meroni coperta di fiori, già mani morbide e intanto feroci avevano strizzato il cuore.
La morbida violenza delle bandiere granata
Lo spettacolo di quelle bandiere fu di autentica morbida violenza. Qualcuno, come il sottoscritto, ne restò tramortito, felice e tramortito. Poi ci fu la partita, con quel primo tempo assai greve, zavorrato di paure, di brutte idee. Diceva qualcuno che la sorte non poteva farsi amica del Torino, dopo tante mazzate, e che comunque la jella non ha memoria, non tiene l’archivio di chi ha già colpito e sarebbe giusto non colpire più. Ci fu il gol di Pulici e troppo presto il gol di Mozzini. Da Perugia radioline gracchianti sembravano raccontare una fiaba assurda, da non credere. Sala giocava come sul fango, tanto pesanti gli erano le gambe prive di allenamento. Castellini sembrava imbalsamato dallo stupore per il fattaccio di poco prima. Graziani continuava a cercare chiavi speciali. Pulici a dare spallate. Quelli del Cesena apparivano perfidi e degni, feroci e felloni, bravi e gaglioffi nello stesso tempo. Pecci si smagriva in lunghi dribbling. Caporale si slombava in vaste corse. Pensavo al cuore di Pianelli, al cuore inteso come muscolo cardiaco, ed a quella volta che disse: per uno scudetto darei cinque anni di vita.

Il Torino di Mazzola e non solo
Il Torino di Pianelli, di Radice, di Giuseppe Crivellaro da Gassino autore della bandiera massima, quella bianca con scudetto, la più grande dello stadio, ovviamente nel posto sacro della curva Maratona, il Torino del sindaco Novelli, di Meroni che adesso avrebbe trentatré anni, di Sandro Mazzola che non è mai riuscito a dire se non a me quanto lo ama, di Boniperti che lo rispetta e lo stima, del sottoscritto che lo patisce e gli vuole bene, il Torino di chi sta leggendo e compitava la speranza anche quando i punti di distacco dalla Juventus erano cinque, questo Torino è campione d’Italia, per la settima volta, che dovrebbe essere l’ottava se la politica non gliene fosse costato uno: anno 1926-27, primo il Torino, scudetto tolto per corruzione presunta di Allemandi della Juventus, ma così sporca la manovra - Allemandi, radiato, venne amnistiato sei mesi dopo - che Arpinati, federale di Bologna, non riuscì a far aggiudicare lo scudetto alla onesta squadra della sua città, seconda, che forse sarebbe il caso di una riabilitazione, dopo giusta inchiesta.
