Da Pogba a Sancho: il maledetto United è quello di Manchester

La crisi dei Red Devils prosegue tra problemi di disciplina, scandali extra calcistici e mancata valorizzazione dei tanti talenti
Da Pogba a Sancho: il maledetto United è quello di Manchester

Jadon Sancho non ha mai considerato l’età come una barriera insormontabile. Già a sei anni si era preso la briga di trasformare il campetto in cemento di Camberwell, quartiere popolare nel sud di Londra in cui la sua famiglia viveva, in un palcoscenico personale in cui esibire quel talento precoce, innato, e incomprensibile per i suoi coetanei. E ancor di più per i ragazzetti più grandi e fisicamente più dotati, a cui lo smilzo ragazzino tendeva a far ingurgitare l’ego da bulli, schernendoli con trucchetti e giochi di gamba che a quei tempi il piccoletto prendeva in prestito da suo primo mito, il Gaúcho Ronaldinho.

Sancho, talento precocissimo

«Ho sempre desiderato diventare un calciatore professionista, fare in modo che la gente mi guardasse e dicesse “wow” come quando io guardavo Ronaldinho e dicevo “wow”». Parole di un Sancho nemmeno maggiorenne, ma già avviato verso un futuro radioso. E, in effetti, nel corso della sua precoce carriera di “wow” ne ha ascoltati parecchi. Tanto che, a soli 18 anni era già considerato uno dei nuovi fenomeni del calcio mondiale, cresciuto in quell’incubatrice di talento che porta il nome di Borussia Dortmund, nonché primo millennial ad avere il privilegio di indossare la maglia della nazionale maggiore inglese. A quell’epoca, il muro giallo del Westfalenstadion era il testimone privilegiato della collaborazione artistica fra il giovane londinese e il suo compagno di reparto, un certo Erling Braut Haaland. Talento allo stato grezzo, forze pura e una delle coppie d’attacco più esplosive d’Europa.

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Il derby con Haaland

Nel futuro di entrambi la “Queen City” inglese, quella Manchester un tempo dominata in modo incontrastato dai Diavoli in maglia rossa, ma che nell’ultimo decennio è diventata il regno dei cugini del City. Quando Haaland mise piedi a Manchester, poco più di un anno fa, furono in molti a chiedergli conto della sua amicizia con il collega inglese, prospettando una rivalità sul campo che avrebbe portato il derby cittadino su livelli mai sperimentati prima: «Siamo molto amici, ma forse ora che siamo sulle sponde opposte di Manchester dovremo incontrarci di nascosto», confessò col sorriso sulle labbra il fuoriclasse norvegese. In realtà, in questo anno e poco più di coabitazione sotto il cielo sempre grigio della città del nord dell’Inghilterra la sfida che tutti si aspettavano e già pregustavano non c’è mai stata. E questo perché il ragazzo più promettente del panorama calcistico inglese degli ultimi anni, a differenza dell’ex compagno di squadra, si è incartato su sé stesso, entrando in una sorta cul-de-sac da cui sembra incapace di venir fuori.

Il litigio social con Ten Hag

Una parabola discendente che lo ha già privato della Nazionale, culminata nell’esclusione dai convocati per la sfida dell’Emirates della scorsa settimana, che il tecnico dei Red Devils ha giustificato lanciando a Sancho accuse di scarso impegno durante gli allenamenti: «Non lo abbiamo selezionato basandoci sue prestazioni in allenamento. Devi raggiungere il massimo livello ogni giorno qui. Posso fare delle scelte e lui, in questa partita, non è stato chiamato», aveva detto l'allenatore olandese. Accuse che, grazie all’arma più potente di ogni calciatore moderno, i propri canali social, Sancho ha immediatamente rispedito al mittente: «Per favore, non credete a tutto ciò che leggete! Non permetterò alle persone di dire cose completamente false, ho svolto veramente bene gli allenamenti questa settimana. Io credo che ci siano altri motivi dietro a questa faccenda dei quali non parlerò, ma sono stato per molto tempo un capro espiatorio, il che non è giusto!», la replica piccata del 23enne inglese.

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United, spogliatoio polveriera

Insomma, è successo di nuovo. Proprio come accadde qualche mese fa con Cristiano Ronaldo - anche lui autore di un J'accuse televisivo diretto al tecnico olandese - la bolla della discordia è scoppiata nuovamente nello spogliatoio dei Red Devils. Problemi disciplinari e panni sporchi lavati in pubblica piazza, che ancora una volta portano lo United in prima pagina, ma non per i motivi che i tifosi vorrebbero. Un problema di disciplina che sembra diventato virale fra le mura di Carrington, e che sta dando a Ten Hag molto più filo da torcere della stessa rincorsa ai risultati, che, col terzo posto della scorsa stagione, sembra essersi rimessa sulla giusta carreggiata. E se la questione Greenwood ha solo sfiorato il tecnico, quella che riguarda Antony lo coinvolge, invece, molto più profondamente, visto che il brasiliano pagato una vagonata di milioni solo un anno fa, è stato una scelta precisa dell’allenatore olandese.

Giggs e l'opinione su Sancho

La questione Sancho è, però, diversa. Essa si trascina da mesi, e come ha avuto modo di dire in queste ore un ex bandiera dello United, Ryan Giggs, la recente uscita di ten Hag «potrebbe essere stato l'ultimo lancio di dadi» tentato dal tecnico. Secondo Giggs, dietro l’uscita del tecnico c’è l’estremo tentativo di scuotere il ragazzo: «Chiamiamolo pubblicamente e vediamo come reagisce - avrà pensato l'allenatore secondo Giggs. Dall'esterno non si sa, ma sembra che Ten Hag abbia provato di tutto con Sancho», ha confessato il gallese.

Il problema di Sancho, potrebbe, dunque, somigliare molto più alle difficoltà recentemente confessate da un altro talento inglese sfiorito nel tempo, Dele Alli, che a semplici capricci da superstar del pallone. Tanto che, fra ottobre e febbraio scorsi, lo stesso ten Hag aveva concesso al calciatore del tempo lontano dalla prima squadra per riprendersi dai problemi fisici e mentali che lo stavano attanagliando. Ed era stato lo stesso tecnico ad affidarlo alle cure dell’OJC Rosmalen, club non professionistico olandese con cui Sancho si era allenato per qualche tempo prima di far ritorno a Manchester e tentare di riconquistare quello status di campione perso per strada. Missione fallita anche stavolta, come testimonia il recente strappo col tecnico.

Pogba e gli altri: caso United

Sancho, però, non è il primo che, presentatosi a Manchester nel post Ferguson col biglietto da visita di grande talento, non è riuscito a far vedere in maglia Red Devils ciò che prima sembrava riuscirgli naturalmente. Pogba, per esempio, tornato a Manchester da campione affermato dopo gli anni alla Juventus, nei 5 anni trascorsi in Inghilterra, anche per i problemi fisici che lo hanno martoriato, non è mai stato, se non a sprazzi, quel magnifico centrocampista che in bianconero aveva incantato il mondo. Così come era accaduto a fuoriclasse del calibro di Di Maria, Sanchez o Lukaku, e così come è capitato più recentemente anche a un altro giovane, Donny Van de Beek,  arrivato anche lui a Carrington su un cavallo bianco e con la spada sguainata, per poi finire nel dimenticatoio di uno spogliatoio in cui, per non uscirne triturato, oltre al talento, bisogna dimostrare di avere una spiccata capacità di resistere alle pressioni e al peso di una maglia gloriosa.

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Jadon Sancho non ha mai considerato l’età come una barriera insormontabile. Già a sei anni si era preso la briga di trasformare il campetto in cemento di Camberwell, quartiere popolare nel sud di Londra in cui la sua famiglia viveva, in un palcoscenico personale in cui esibire quel talento precoce, innato, e incomprensibile per i suoi coetanei. E ancor di più per i ragazzetti più grandi e fisicamente più dotati, a cui lo smilzo ragazzino tendeva a far ingurgitare l’ego da bulli, schernendoli con trucchetti e giochi di gamba che a quei tempi il piccoletto prendeva in prestito da suo primo mito, il Gaúcho Ronaldinho.

Sancho, talento precocissimo

«Ho sempre desiderato diventare un calciatore professionista, fare in modo che la gente mi guardasse e dicesse “wow” come quando io guardavo Ronaldinho e dicevo “wow”». Parole di un Sancho nemmeno maggiorenne, ma già avviato verso un futuro radioso. E, in effetti, nel corso della sua precoce carriera di “wow” ne ha ascoltati parecchi. Tanto che, a soli 18 anni era già considerato uno dei nuovi fenomeni del calcio mondiale, cresciuto in quell’incubatrice di talento che porta il nome di Borussia Dortmund, nonché primo millennial ad avere il privilegio di indossare la maglia della nazionale maggiore inglese. A quell’epoca, il muro giallo del Westfalenstadion era il testimone privilegiato della collaborazione artistica fra il giovane londinese e il suo compagno di reparto, un certo Erling Braut Haaland. Talento allo stato grezzo, forze pura e una delle coppie d’attacco più esplosive d’Europa.

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