Sergio Baldini
TORINO - «Dobbiamo impegnarci a fare bene, ma ricordandoci che una cosa fatta bene può essere sempre fatta meglio». Si chiudeva così, il 24 luglio 1923, il primo discorso di Edoardo Agnelli ai soci della Juventus, di cui era appena diventato presidente, primo membro della famigia a entrare nel club. E cominciava così quell’inseguimento costante all’eccellenza radicatosi nella società bianconera al punto da diventare parte del suo dna. Tanto che la stragrande maggioranza dei giocatori passati per la Juventus ne indica come tratto distintivo proprio l’attitudine ad archiviare subito ogni vittoria per pensare a quella successiva: «Una cosa fatta bene può essere sempre fatta meglio», appunto.
Vecchia di quasi 100 anni, l’esortazione vale anche per le vittorie ottenute su Bologna e Maccabi Haifa dalla squadra di Massimiliano Allegri, oggi chiamata a fare meglio a San Siro contro un Milan che da meno di due mesi ha cambiato proprietà, passando da Elliot a RedBird: entrambe società di gestione degli investimenti, entrambe statunitensi. Una storia contemporanea e "una storia d’altri tempi", canterebbe De Gregori come in “Il bandito e il campione", ma non "di prima del motore". Anzi, in questa storia il motore è centrale, perché è un operaio della Fiat a darle inzio. C’è chi dice che la Storia, quella con la S maiuscola, sia ciclica e in effetti, se oggi ci sono (pochi) calciatori che non hanno nell’ingaggio la principale fonte di guadagno (Cristiano Ronaldo su tutti), ce ne erano anche, e molti, negli anni Venti. E non perché incassassero una fortuna con la pubblicità, ma perché per vivere dovevano lavorare: Giovanni Bruna, per esempio, terzino passato nel 1919 dalla Pro Vercelli alla Juventus, faceva l’operaio alla Fiat. Fu per chiedere i permessi pomeridiani che gli consentissero di allenarsi che il dirigente bianconero Sandro Zambelli qualche tempo dopo incontrò il fondatore e presidente della Fabbrica Italiana Automobili Torino, il senatore Giovanni Agnelli. La cui disponibilità spinse Zambelli a osare e a offrirgli la presidenza della società: rifiutata in prima persona, ma accettata in qualità di capofamiglia e lungimirante imprenditore, capace di comprendere la crescente importanza sociale del calcio, e girata al figlio Edoardo. Che dette subito seguito al suo discorso di insediamento: due stagioni di apprendistato e poi Scudetto, il secondo della storia del club dopo quello del 1905.
Da allora ogni vittoria della Juventus è stata targata Agnelli, anche se non sempre c’è stato un membro della famiglia sul ponte di comando con un ruolo operativo: basti pensare alle epoche lunghe e vincenti di Boniperti, presidente dal 1971 al 1990 e poi dal 1991 al 1994, e della Triade Bettega-Giraudo-Moggi, dal 1994 al 2006. Anche in quei periodi, però, un Agnelli ha sempre mantenuto la guida ultima della società: l’Avvocato, Giovanni, con Boniperti; il Dottore, Umberto, con la Triade. Una costante, così come quella che ha legato la famiglia alle stelle più luminose della storia bianconera. Edoardo, il padre di Gianni e Umberto, volle prima Hirzer, l’idolo dell’Avvocato bambino, ungherese da 50 gol in 43 presenze e stella di quello Scudetto del 1926, costretto dalle leggi fasciste a lasciare l’Italia nel 1927, e poi Orsi e gli altri oriundi argentini, protagonisti del Quinquennio d’oro di inizio Anni Trenta. Umberto a 21 anni portò alla Juventus Charles e Sivori, l’Avvocato decise gli acquisti di Platini e Baggio. Andrea Agnelli, in carica dal 2010, ha portato in bianconero Cristiano Ronaldo, poi Di Maria e riportato Pogba. Nessuno di questi due sarà in campo oggi a San Siro, ma quella frase pronunciata quasi un secolo fa dal nonno dell’attuale presidente sarà nella testa di tutti i bianconeri.