Storia, gloria e passione: onorate 125 anni di Juve

Viaggio nel tempo bianconero dove tutto parla di tenacia e onore
Storia, gloria e passione: onorate 125 anni di Juve

In quel pomeriggio di centoventicinque anni fa il più vecchio era più giovane di Fagioli ed era destinato a diventare il presidente. Gli altri erano studenti del Liceo Classico Massimo D’Azeglio, tra i 13 e i 18 anni, che un giorno avevano deciso di andarsi ad allenare nella corsa in piazza d’Armi, ma lì c’erano gli inglesi dell’Internazionale Torino che giocavano a football e, rimasti a bocca aperta, avevano detto: «Perché non proviamo anche noi». Centoventicinque anni dopo, gli eredi di quei ragazzi curiosi e sognatori, si alleneranno nella corsa e nel football, per affrontare in modo quantomeno degno il Paris Saint Germain, domani sera ospite allo Stadium. Il pomeriggio della fondazione della Juventus e quello dell’allenamento di oggi abbracciano un secolo e un quarto di storia e storie, di successi e delusione, di amore e nostalgia, ma soprattutto di tenacia, che resta il tratto più juventino di tutti e, ancora più delle vittorie, la vera lezione che insegnano i 125 anni trascorsi dal 1° novembre del 1897. Una lezione che risuona nel luogo che raccoglie tutto questo tempo. Sì, non c’è posto più giusto del J-Museum dove passare un compleanno così importante della Juventus per ascoltare, ancora più che guardare, oggetti che hanno attraversato i secoli e parlano della perseveranza, della caparbietà e anche della cocciutaggine degli uomini e delle donne bianconere. Tenacia è la parola.

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Erano tenaci i pionieri, che non disdegnavano la goliardia e avevano un meraviglioso modo di raccontare i loro avventurosi inizi. Gracchia il vinile da cui esce la voce di Umberto Malvano, 13 anni il giorno della fondazione, calciatore e poi dirigente della Juventus, che nel 1970 (quando di anni ne aveva 86) era stato intervistato da Sandro Ciotti per un disco, che all’inizio del museo racconta con una incantevole nostalgia la sua infanzia, quasi incredulo che la sua adolescenza abbia gettato la prima pietra di un monumento della storia sportiva e sociale del nostro Paese, conosciuto in ogni parte del pianeta.«Noi volevamo allenarci alla corsa, ma gli inglesi con quel pallone ci hanno stregato! Ci trovavamo sempre sulla panchina all’incrocio fra Corso Re Umberto e Corso Vittorio. Lì parlavamo e progettavamo la fondazione di un club come quello degli inglesi». E la panchina è lì davanti, esposta nella teca più grande e affascinante, illuminata in modo suggestivo, per rapire chi la guarda e trasportarlo indietro nel 1897 e spiegargli che sì, la Juventus è qualcosa di enorme che produce emozioni forti, gioia e disperazione, per milioni di persone, ma tutto parte dalla tenace passione di un gruppo di ragazzi che avevano un sogno e l’hanno realizzato. Il più grande, Enrico Canfari, aveva vent’anni, uno in meno di Nicolò Fagioli appunto, anche lui proprietario di un sogno realizzato giusto sabato sera: un gol con la Juventus. Potrebbero parlarsi, Canfari e Fagioli, trovando più di un argomento in comune: due ventenni, 125 anni in mezzo a loro, e un filo che gli consente di far passare la stessa emozione.

La Juventus nasce adolescente, un po’ bohémien forse, ma con la tigna tutta torinese di chi, anche quando gioca, vuole fare le cose per bene. E così si fa arrivare le maglie dall’Inghilterra, dove sono anni luce avanti con lo sport: bianche e nere, come quelle del Notts County, la squadra del cuore di Tom Savage, un inglese che si era unito ai ragazzi del D’Azeglio per insegnare loro un po’ di regole e un po’ di trucchi della disciplina che li aveva stregati. Era tenace, tenacissimo, Edoardo Agnelli, che nel 1923 diventa presidente della Juventus, dopo che suo padre, il senatore Giovanni, fondatore della Fiat, aveva deciso di acquistare quel club di football e applicare la sacra regola di famiglia: qualcosa fatta bene può sempre essere fatta meglio. Edoardo è appassionato di calcio, ma è un uomo che guarda avanti e la Juventus diventa il primo club moderno della storia del calcio italiano. Ha un suo stadio, in corso Marsiglia, dentro il quale c’è la sede e, addirittura, una palestra per allenarsi al chiuso, tribune in cemento armato, un impianto di illuminazione. E dentro ci mette i giocatori migliori pescati in Italia e nel mondo, soprattutto in Argentina e Uruguay, dove i rappresentati della Fiat fanno da scout e scelgono i talenti migliori da portare a Torino. Nasce la Juventus dei cinque scudetti consecutivi, base dell’Italia bicampione del mondo nel 1934 e 1938. C’è un progetto dietro, c’è una dirigenza attenta (coordinata dal leggendario barone Giovanni Mazzonis), c’è una struttura, c’è insomma un piano per arrivare al successo e la tenacia per metterlo in pratica. «Senza lavoro non si ottiene niente», dice spesso Edoardo, il nonno di Andrea.

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Era tenace Boniperti che parla da ogni angolo del Museum: giocatore, capitano, presidente, simbolo immortale di juventinità. Gli attribuiscono la frase che «vincere è l’unica cosa che conta» (la cui paternità è invece di Vince Lombardi, mitico coach negli Anni 60), ma più che delle parole, che usava sempre malvolentieri, la sua eredità è fatta di esempi, in campo e fuori. Attaccante di qualità e cattiveria, non si accontentava di avere un tiro potente e preciso, agilità nei movimenti e una discreta classe, ci aggiungeva una ferocia agonistica temutissima dagli avversari e, talvolta, dai compagni sempre spronati a dare il massimo come faceva lui. È stato il prototipo del capitano juventino, forse dello juventino stesso: combattere sempre per il club. Aveva iniziato quando il calcio era dominato dal Grande Torino e alla Juventus restavano briciole di successo da conquistare, ma l’onore da difendere. «In tempi cupi come questi suona attualissima la sua frase: Più buia è la notte, più vicina è l’alba», spiega Paolo Garimberti, che del J-Museum è il presidente e può trasformarsi all’occorrenza in Virgilio, guidando la visita con orgoglio.

Un Virgilio innamorato come Dante che si perde davanti alle teche di Sivori e Charles, «la mia prima Juventus, quella che mi ha conquistato con la fantasia spericolata di Omar e il muscoloso rigore di John. Mi ricordo il mio esordio da tifoso a Marassi, un 3-1 inflitto al Genoa, nel quale Charles mollò un ceffone a Sivori, che come al solito stava surriscaldando l’ambiente e gli avversari con le sue irresistibili provocazioni». Era una Juventus tenace anche quella, anche perché figlia di tempi duri, quelli dal 1952 al 1957, un quinquennio nero, con due noni posti e una proposta, sventata sdegnosamente da un giovanissimo Umberto Agnelli, di fusione con il Torino. Era il momento più buio della notte, albeggiò con una Juventus stellare. «Resistere nei momenti bui fa parte dell’essere tifoso. Oggi si vive di momenti, di flash, dell’estremizzazione del presente, ma il tifo di una squadra non può prescindere dalla sua storia, il passato non solo offre fondamenta per costruire il futuro, ma non si può dimenticare. Un tifoso abbraccia tutta la storia di un club e la storia del club abbraccia lui. Contestualizzare il momento è sempre importante, altrimenti non ci si gode abbastanza le vittorie e si soffre troppo per le sconfitte. Il museo serve anche a questo, a immergersi in questi 125 anni e contestualizzare il presente». Nella sua circolarità, la stanza dei trofei, abbagliante di argento e oro, rende in modo fisico questa sensazione.

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Era tenace la Juventus di Giovanni Trapattoni che ha cavalcato gli Anni 70 e 80, imprimendo nei grandi campioni allenati un agonismo travolgente e un senso di lealtà reciproca che ha consentito di vincere e lasciare un segno indelebile nel cuore dei tifosi. «Quest’estate è venuto Liam Brady a trovarci e ci ha regalato il pallone di Catanzaro, quello del famoso rigore che valeva lo scudetto e che lui ha battuto sapendo di essere già stato ceduto e avendo pianto per quella decisione presa sulla sua testa». Quel pallone può spiegare bene ancora oggi cosa significhi essere un gruppo e avere spirito di appartenenza. Era tenace la Juventus di Marcello Lippi, quella di Vialli, Ravanelli, Del Piero e Baggio, quella della Champions League e dell’Intecontinentale del 1996, quella che seguiva un periodo di nove anni senza scudetti, con poche gioie e tante amarezze. Albeggia sempre con furore dopo le notti juventine e quella squadra ha lasciato pezzi ovunque nel J-Museum, alcuni di vero culto come gli occhiali di Edgar Davids e un maglia di Paolo Montero, due campioni che hanno conquistato l’eterno amore del tifo portando il concetto di tenacia a vette quasi pericolose. Per lo meno per gli avversari.

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Era, anzi è stata tenace la Juventus dei nove scudetti consecutivi, succeduta alla più nera delle notti, quella di Calciopoli che aveva provato a cancellare il biennio di Capello e dei campioni del mondo del 2006. «Vincere nove scudetti di fila è quasi irreale», dice Garimberti che li ha vissuti da dentro il club. «Si perde quasi l’orientamento in un ciclo così lungo». Sono passati solo due anni, si fa fatica a considerare reperti quelli che sono frammenti recenti, schegge di ieri, come la penna usata da Agnelli e Ronaldo per firmare il contratto sull’isola greca passata alla storia del calciomercato juventino. Un sogno pazzesco che diventa pazzesca realtà, naturalmente grazie alla tenacia.

E sono tenaci le ragazze e delle donne delle Women, che come i pionieri di 125 anni fa, aprono nuovi orizzonti, squarciano pregiudizi, illuminano di nuova bellezza il calcio con la stessa passione dei ragazzi del D’Azeglio. Insomma, oggi, per festeggiare degnamente il 125° compleanno della Juventus, i suoi giocatori dovrebbero onorarne quel tratto distintivo che ne ha costruito la storia, allenandosi con tenacia per combattere con tenacia domani sera. Lo meritano i tifosi che anche ieri facevano la fila davanti al J-Musuem, lo merita la storia del club «che in fondo è un prisma che può riflettere la storia del Paese così come la storia di ognuno dei suoi tifosi che intrecciano i propri sentimenti intorno a ogni partita, senza perdere mai la fede». Tenaci, pure loro.

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In quel pomeriggio di centoventicinque anni fa il più vecchio era più giovane di Fagioli ed era destinato a diventare il presidente. Gli altri erano studenti del Liceo Classico Massimo D’Azeglio, tra i 13 e i 18 anni, che un giorno avevano deciso di andarsi ad allenare nella corsa in piazza d’Armi, ma lì c’erano gli inglesi dell’Internazionale Torino che giocavano a football e, rimasti a bocca aperta, avevano detto: «Perché non proviamo anche noi». Centoventicinque anni dopo, gli eredi di quei ragazzi curiosi e sognatori, si alleneranno nella corsa e nel football, per affrontare in modo quantomeno degno il Paris Saint Germain, domani sera ospite allo Stadium. Il pomeriggio della fondazione della Juventus e quello dell’allenamento di oggi abbracciano un secolo e un quarto di storia e storie, di successi e delusione, di amore e nostalgia, ma soprattutto di tenacia, che resta il tratto più juventino di tutti e, ancora più delle vittorie, la vera lezione che insegnano i 125 anni trascorsi dal 1° novembre del 1897. Una lezione che risuona nel luogo che raccoglie tutto questo tempo. Sì, non c’è posto più giusto del J-Museum dove passare un compleanno così importante della Juventus per ascoltare, ancora più che guardare, oggetti che hanno attraversato i secoli e parlano della perseveranza, della caparbietà e anche della cocciutaggine degli uomini e delle donne bianconere. Tenacia è la parola.

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