Tacchinardi: La Juve è orgoglio e lotta. Ci odiavano tutti perché vincenti

Intervista esclusiva all'ex bianconero: "Allenamenti a duemila all'ora, spingevamo come animali. Batterci era tremendamente difficile. E i nuovi dicevano..."
Tacchinardi: La Juve è orgoglio e lotta. Ci odiavano tutti perché vincenti© LaPresse

Alessio Tacchinardi, 404 partite, 6 scudetti sul campo, 1 Coppa Italia, 4 Supercoppe italiane, 1 Champions League, 1 Supercoppa europea, 1 Coppa Intercontinentale e 1 Coppa Intertoto nella Juventus: che cosa significa farne parte?

«La maglia bianconera ti trasmette tante emozioni: un senso di forza, di sfida, di competizione, di lottare contro tutto e tutti, di pesantezza positiva, di grande responsabilità. La Juve è la squadra più amata ma anche più odiata: in tutti i campi quando arrivavamo giocano con i coltelli tra i denti. Quando ne sono entrato a far parte ho percepito di appartenere a qualcosa di diverso: sei tu contro tutto il resto, ti dà tanto ma chiede anche tanto».

Qual è il ricordo più significativo della sua carriera per spiegare che cos’è la Juventus?

«Ero appena arrivato alla Juve ed eravamo in ritiro in Svizzera. Alla prima partitella non passai la palla a Vialli ma tirai io in porta: dopo Gianluca mi fece un cazziatone perché avevamo pareggiato. Alla Juve il pari era come una sconfitta, anche in partitella. Quando veniva l’Avvocato all’allenamento e magari le cose non stavano andando bene le sue battute erano come stilettate perché la mentalità doveva essere soltanto vincente. Ricordo, dopo una sconfitta a Lecce, che la Triade il mattino successivo ci fece una lavata di testa. Nella mia Juve dovevi tirare fuori qualcosa di diverso».

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Cos’ha di differente la Juventus dalle altre società?

«La mentalità. Nessuno ce l’aveva come noi, tutte le domeniche eravamo dei martelli. Mi ricordo che tanti giocatori appena arrivati, da Henry a Miccoli, da Di Vaio a Zambrotta, dicevano “Ma qui c’è pressione anche negli allenamenti”, la stessa pressione che poi ritrovavi nelle partite. A livello mentale eravamo anni luce distanti rispetto a questa Juve: la squadra attuale deve ritrovare la mentalità che avevamo noi. Penso che il cordone ombelicale si sia rotto con gli addii di Buffon e Chiellin. Dopo la sconfitta a Lisbona contro il Benfica ho sentito Locatelli dire in tv “Abbiamo tirato fuori le palle solo negli ultimi 15 minuti”. Nella mia Juve ti asfaltavano: le palle le dovevi tirare fuori dal 1° luglio al 30 giugno, gli allenamenti erano a 2000 all’ora, tutti che spingevano come animali, tutti che volevamo vincere anche le partitelle, però batterci era tremendamente difficile».

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Qual è il dirigente della Juventus che ne ha più incarnato lo spirito?

«Moggi e Giraudo erano fastidiosi in senso buono, avevano grinta, ma anche Andrea Agnelli all’inizio mi è sembrato molto determinato».

Cosa non deve fare mai un giocatore, un dirigente e un allenatore della Juventus?

«Indossare questa maglia in maniera superficiale, allenarsi al 50% pensando di poter vivacchiare. La maglia bianconera merita rispetto per la sua storia e aver preso troppi stranieri è stato un errore perché non conoscono la grandezza del club».

I tifosi della Juventus sono più difficili di altri tifosi in termini di aspettative e severità di giudizio?

«Ai miei tempi sì, molto, adesso secondo me sono meno esigenti. Ai miei tempi certe prestazioni di quest’anno avrebbero scatenato critiche severe e caterve di fischi: i tifosi ti prendevano di mira, adesso riconosco più quel tipo di tifosi al Milan e all’Inter, sembrano diventati juventini per come spingono la loro squadra. Non vorrei un adattamento della tifoseria bianconera, mi sembra che allo Stadium il pubblico sia più tranquillo, invece dovrebbero mettere un po’ di pepe, carica e tensione alla squadra».

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Che cosa significa in termini di responsabilità avere la famiglia Agnelli alle spalle?

«Io ho avuto l’enorme privilegio di conoscere tanti componenti della famiglia Agnelli. Confrontarmi con l’Avvocato, il dottor Umberto, Andrea e donna Allegra è stato qualcosa di unico e speciale: averli alle spalle è un grande salvagente. E sono convinto che più sei in alto e più sei umile: chi fa il fenomeno crolla dopo un paio di stagioni».

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Che ne pensa di questa stagione?

«Per ripartire servono idee chiare e un progetto: c’è da ricostruire una casa e bisogna partire dalle fondamenta. Non guardiamo alle tende o ai quadri, ma alle colonne portanti: chi la costruisce, chi la guida, chi sta vicino ai giocatori, quali giocatori prendere. L’ultima Juve non è stata disastrosa ma sicuramente non sufficiente: non ha mai espresso un bel gioco. E il -10 non deve essere un alibi per mascherare altro: la Juve non puoi prendere 4 gol a Empoli. Saranno stati anche scioccati per la sentenza a mezz’ora dall’inizio, ma proprio per quello devi scendere in campo e ribaltare gli avversari. Almeno, noi avremmo fatto così. Mentre Inter e MIlan hanno l’ossatura della futura squadra, alla Juve ancora manca. Allegri è stato lasciato solo, servono figure come Del Piero e Giuntoli che portino entusiasmo». 

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Alessio Tacchinardi, 404 partite, 6 scudetti sul campo, 1 Coppa Italia, 4 Supercoppe italiane, 1 Champions League, 1 Supercoppa europea, 1 Coppa Intercontinentale e 1 Coppa Intertoto nella Juventus: che cosa significa farne parte?

«La maglia bianconera ti trasmette tante emozioni: un senso di forza, di sfida, di competizione, di lottare contro tutto e tutti, di pesantezza positiva, di grande responsabilità. La Juve è la squadra più amata ma anche più odiata: in tutti i campi quando arrivavamo giocano con i coltelli tra i denti. Quando ne sono entrato a far parte ho percepito di appartenere a qualcosa di diverso: sei tu contro tutto il resto, ti dà tanto ma chiede anche tanto».

Qual è il ricordo più significativo della sua carriera per spiegare che cos’è la Juventus?

«Ero appena arrivato alla Juve ed eravamo in ritiro in Svizzera. Alla prima partitella non passai la palla a Vialli ma tirai io in porta: dopo Gianluca mi fece un cazziatone perché avevamo pareggiato. Alla Juve il pari era come una sconfitta, anche in partitella. Quando veniva l’Avvocato all’allenamento e magari le cose non stavano andando bene le sue battute erano come stilettate perché la mentalità doveva essere soltanto vincente. Ricordo, dopo una sconfitta a Lecce, che la Triade il mattino successivo ci fece una lavata di testa. Nella mia Juve dovevi tirare fuori qualcosa di diverso».

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«La mentalità. Nessuno ce l’aveva come noi, tutte le domeniche eravamo dei martelli. Mi ricordo che tanti giocatori appena arrivati, da Henry a Miccoli, da Di Vaio a Zambrotta, dicevano “Ma qui c’è pressione anche negli allenamenti”, la stessa pressione che poi ritrovavi nelle partite. A livello mentale eravamo anni luce distanti rispetto a questa Juve: la squadra attuale deve ritrovare la mentalità che avevamo noi. Penso che il cordone ombelicale si sia rotto con gli addii di Buffon e Chiellin. Dopo la sconfitta a Lisbona contro il Benfica ho sentito Locatelli dire in tv “Abbiamo tirato fuori le palle solo negli ultimi 15 minuti”. Nella mia Juve ti asfaltavano: le palle le dovevi tirare fuori dal 1° luglio al 30 giugno, gli allenamenti erano a 2000 all’ora, tutti che spingevano come animali, tutti che volevamo vincere anche le partitelle, però batterci era tremendamente difficile».

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