Il segreto di Alcaraz: un motto tatuato sull'avambraccio

Dopo la vittoria di Wimbledon per Carlos arriva la parte più difficile: sarà chiamato a gestire tutto ciò che non ha nulla a che vedere con il campo da tennis
Il segreto di Alcaraz: un motto tatuato sull'avambraccio© Getty Images

Tre “C” se l’è fatte tatuare sull’avambraccio in occasione della vittoria di un anno fa agli US Open. L’unico tattoo che si sia mai concesso. Rappresentano il motto di casa Alcaraz, una frase che il nonno utilizzava come chiosa di ogni discorso importante rivolto alla famiglia. È come un punto esclamativo, lo è in termini figurati, commentati, dunque vale di più.

Cabeza, Corazòn y Cojones. Testa, Cuore e Palle. È il motore, la spinta vitale che sembra rendere inesauribile e invasivo il processo di appropriazione tennistica che il ragazzo di El Palmar sta conducendo sui resti lasciati da Federer, Nadal e Djokovic. Nessun’altra “C” sarà aggiunta a ricordo della prima vittoria a Wimbledon. Il circuito integrato, protettivo, indicato dal nonno funziona bene così, e tre è il numero perfetto. Mi chiedo però se Carlitos riesca a immaginare quante richieste stiano per piombargli sulla prima C, quel cabezon di capelli fitti come una foresta del nord, lui che è nato sul mare un mese e mezzo prima dell'inizio dell'Era Federer.

Alcaraz e l'immagine perfetta

Proprio la storia di Roger – che Carlos ama più di ogni altra –, giunto capellone al successo, poi rileccato e tirato a lucido nel corso dell’anno successivo, può dargli la misura delle richieste con cui avrà a che fare. Gli sponsor offriranno contratti “ai quali non si può dire di no”, e accamperanno pretese che finiranno per rendergli diversa la vita. Basta modi rustici, sopracciglia un tanto al metro quadro, capelli da tagliare con la motosega. Basta acne giovanile e discorsetti in inglese da seconda media. Il vincitore di Wimbledon è chiamato a offrire un’immagine di sé ai limiti della perfezione. E per i tipi alla Alcaraz, farsi tastare di continuo il polso può essere il pericolo maggiore. Più che incontrare Djokovic in ogni futuro torneo. Se ha tempo di rifletterci, Carlitos potrebbe scoprire che la parte difficile viene ora, e con il tennis c’entra poco o nulla.

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Alcaraz può ripetersi dopo Wimbledon

Nell’ambito che meglio di ogni altro conosce – cioè tutto quello che succede dentro un rettangolo di gioco di 23,77 metri di lunghezza per 8,23 di larghezza (per il singolare) con una rete al centro alta 91,4 centimetri al centro e 107 ai lati – Alcaraz può stare abbastanza tranquillo. Avversari ce ne sono, altri ne arriveranno, ma è chiaro che il successo su Djokovic a Wimbledon aggiunge ai tanti buoni propositi e al talento innato, la convinzione di potersi ripetere anche in altre occasioni. Piuttosto, si può dubitare su Nole, sulla sua tenuta. Per quanto i 36 di Djokovic siano i nuovi 26, non penso che il serbo troverà la voglia di continuare così a lungo come sembra abbia progettato, senza la certezza di essere l’uomo da battere, quasi inavvicinabile nei confronti tre su cinque. Più della sconfitta rimediata da Medvedev due anni fa, nella finale più tragica della sua carriera, agli US Open, a un passo dalla conquista del Grande Slam, l’impressione è che il kappaò infertogli da Alcaraz nel suo torneo preferito possa risultare indigesto come lo stesso Nole non avrebbe mai immaginato.

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Alcaraz, il meglio della Triade

La sconfitta è giunta d’un nulla (se fosse stato lui ad appropriarsi del set point nel secondo set, sarebbe andato avanti 2-0 e addio Alcaraz), ma nella consapevolezza che il ragazzino abbia fatto tutto bene, e alla lunga, nei momenti centrali del confronto, non abbia sbagliato nulla. L’ha ammesso lo stesso Nole. A naso, può darsi che ciò che finirà per fare più male al Djoker, sarà la scoperta che Alcaraz abbia fatto proprie le migliori qualità sulle quali la Triade aveva costruito un ventennio di successi inarrivabili. Ha preso da tutti loro. Ha il dritto di Federer, potente, accelerato, ricco di variazioni. E sta crescendo nella gestione delle operazioni a rete. Ha il rovescio di Nadal, e sa giocarlo anche slice. Ha la velocità di gambe di Djokovic, il fisico estendibile, i piedi che nello scatto spostano zolle d’erba, tanto è feroce la spinta che esercitano. Djokovic si è sempre vantato di aver battuto Federer e Nadal più volte di quante loro non siano riusciti a batterlo, ora è costretto a giocare contro tutti e tre assieme, compreso se stesso, ognuno incarnato nelle rustiche fattezze del ventenne di Spagna.

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Alcaraz, ecco gli avversari

Il resto della concorrenza è da scoprire meglio, in qualche caso da attendere affinché completi la propria crescita. Alcaraz muove da alcune certezze. Medvedev (2-1 per lo spagnolo, i testa a testa) non sembra dargli più fastidio, la velocità di palla che esprime Carlos non dà modo al russo di applicare variazioni e strategie diverse al proprio tennis. Rune (2-1 anche con lui) resta pericoloso, ma sull’erba il gap è stato profondo, frutto del tennis più completo di Alcaraz. Con Ruud e Rublev non è ancora venuto a contatto, Fritz l’ha disossato a Miami, con Tiafoe è alla pari e agli US Open dell’anno scorso gli è costato una faticaccia da cinque set. Con chi gioca “piedi in campo” e colpisce forte Carlos ha qualche difficoltà. Non a caso a Wimbledon l’avversario più duro, Djokovic a parte, è stato Berrettini negli ottavi. Resta Sinner… Sei match e tre vittorie per parte. Con una certezza, se gli scambi prendono la direzione preferita dall’italiano, quella di un asfissiante ping pong di colpi immediati, Jannik spesso ne esce meglio di lui. Ma chissà se Juan Carlos Ferrero («È un fratello maggiore, anzi, un padre. È una sponda alla quale non cesserò mai di aggrapparmi», dice Alcaraz, quasi zuccheroso) gli permetterà di affrontare ancora Sinner con le fatidiche trame del pong–tennis. Personalmente temo di no.

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Tre “C” se l’è fatte tatuare sull’avambraccio in occasione della vittoria di un anno fa agli US Open. L’unico tattoo che si sia mai concesso. Rappresentano il motto di casa Alcaraz, una frase che il nonno utilizzava come chiosa di ogni discorso importante rivolto alla famiglia. È come un punto esclamativo, lo è in termini figurati, commentati, dunque vale di più.

Cabeza, Corazòn y Cojones. Testa, Cuore e Palle. È il motore, la spinta vitale che sembra rendere inesauribile e invasivo il processo di appropriazione tennistica che il ragazzo di El Palmar sta conducendo sui resti lasciati da Federer, Nadal e Djokovic. Nessun’altra “C” sarà aggiunta a ricordo della prima vittoria a Wimbledon. Il circuito integrato, protettivo, indicato dal nonno funziona bene così, e tre è il numero perfetto. Mi chiedo però se Carlitos riesca a immaginare quante richieste stiano per piombargli sulla prima C, quel cabezon di capelli fitti come una foresta del nord, lui che è nato sul mare un mese e mezzo prima dell'inizio dell'Era Federer.

Alcaraz e l'immagine perfetta

Proprio la storia di Roger – che Carlos ama più di ogni altra –, giunto capellone al successo, poi rileccato e tirato a lucido nel corso dell’anno successivo, può dargli la misura delle richieste con cui avrà a che fare. Gli sponsor offriranno contratti “ai quali non si può dire di no”, e accamperanno pretese che finiranno per rendergli diversa la vita. Basta modi rustici, sopracciglia un tanto al metro quadro, capelli da tagliare con la motosega. Basta acne giovanile e discorsetti in inglese da seconda media. Il vincitore di Wimbledon è chiamato a offrire un’immagine di sé ai limiti della perfezione. E per i tipi alla Alcaraz, farsi tastare di continuo il polso può essere il pericolo maggiore. Più che incontrare Djokovic in ogni futuro torneo. Se ha tempo di rifletterci, Carlitos potrebbe scoprire che la parte difficile viene ora, e con il tennis c’entra poco o nulla.

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