"Amore, ma stai piangendo”. “No no, non sto piangendo, mi è solo entrata una carota in un occhio”. Da migliaia, milioni di salotti d’Italia, locali pubblici, tablet e telefonini collegati ovunque si potesse, la sofferenza prima, la speranza poi, la meraviglia sempre (perché anche Medvedev è stato formidabile: giù il cappello) sono infine sfociate nella commozione. Anche i duri e puri, anche i nerd, anche i cinici, anche gli occasionali; anzi, soprattutto loro, i neofiti del tennis. Che forse ancor più degli espertoni hanno avvertito e vissuto l’eccezionalità di quest’emozione, raramente così condivisa nella storia dello sport italiano. Chi le pupille lucide, chi proprio le lacrimucce, chi addirittura a piangere come un vitello (cit. Tex Willer e Kit Carson). Vuoi perché quarantotto anni fa aveva visto Panatta vincere a Parigi, vuoi perché gli veniva in mente il papà o il nonno, vuoi perché ripensava a pene, delusioni e illusioni passate, vuoi perché la bellezza del tennis sa essere esteticamente ed emotivamente destabilizzante. Vuoi perché - semplicemente - il sorriso tenero e luccicante di Jannik dai capelli rossi riuscirebbe a sedurre pure i cuori di pietra e non solo quelli di panna. Poi certo, complici le derive mentali dei social, c’è sempre chi si crede un fenomeno e cerca di distinguersi con battute che vorrebbero essere sagaci e invece sono soltanto pietose: non è italiano, ha la residenza a Montecarlo, un altro miliardario in mutande che corre dietro a una pallina. A cuccia, su.
Sinner-Medvedev, un'altalena di emozioni
Diciamoci la verità: vecchi o giovani che siamo, non abbiamo assistito a tante cose più belle nella vita. Nella vita, sì, perché lo sport è vita, oltre che spettacolo. E non si tratta solo della fantasmagorica rimonta che entra fin d’ora nell’antologia delle grandi e memorabili imprese, né solo del livello tecnico fantascientifico espresso dai due contendenti o della loro consistenza atletica e resistenza agonistica. È questione anche di gesti, di sguardi, di parole. Del senso di rispetto, quando non di amicizia, che il tennis sa infondere in chi lo pratica e in chi lo guarda. Anche se si sarebbe pronti a morire per vincere una partita. Specie una come questa. Nella quale mille volte ti senti morire, perché l’altro ti sembra ingiocabile mentre a te non riesce niente, e poi ti senti rinascere, perché anche l’altro comincia a sbagliare mentre tu recuperi reattività, sicurezza e precisione; ma poi in un amen riprecipiti nell’incubo, e ti chiedi che senso abbiano avuto tutta quella fatica e quella resistenza.
Sinner, benvenuto tra gli eroi: le imprese che hanno marchiato le nostre vite