Vialli, la Sampdoria, la Juventus e il no al Milan: campione dei gentleman

Si è sempre distinto per eleganza, educazione e grande intelligenza: ai tempi d’oro della Samp fu capace di dire no a Berlusconi (ritratto di venerdì 14 dicembre 2018)

Gianluca Vialli, nell’intervista da Fabio Fazio per presentare il suo saggio “Goals. 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili” s’è schermito così, «il libro è a cura di Pierdomenico Baccalario. Se non ci fosse stato lui…». Non è vero: Vialli è stato l’unico calciatore a non aver mai sbagliato un congiuntivo, ragiona e parla come un professore. È di modi eleganti, commenta posato, prudente, un signorino. A Cremona gli dicevano che era “il figlio del miliardario”, ma la madre, Maria Teresa, ha sempre risposto: «Siamo borghesi. Mio marito lavora e ha cinque figli grandi; come potrebbe essere ricco? Il modo di fare non dipende dai soldi, bensì dalla tradizione di una famiglia della quale fanno parte ingegneri, professionisti e anche un rettore universitario». Eppure a Cremona, la villa dei Vialli la chiamano ancora Castello. Ma lui, di certo, non se n’è mai approfittato. C’è gente che sgobba, a Cremona, e che suda, facciano gli operai, i liutai o i calciatori. E Vialli, infatti, che abbandona la scuola a sedici anni per dedicarsi completamente al pallone (però non aver conseguito la maturità gli stava sul gozzo e infatti ha poi preso il diploma di geometra nel 1993), nella Cremonese passa dalla serie C1 alla B nel 1981 e dalla B alla A nel 1984. Quando la stagione successiva viene acquistato dalla Sampdoria, che non aveva mai conquistato niente né a livello nazionale né tantomeno internazionale, con i blucerchiati Vialli vince, in otto anni, tre Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, lo scudetto del 1991 e una Supercoppa di Lega.

La Coppa dei Campioni sfiorata con la Samp

È pure uno fedele, perché il Berlusca che lo vorrebbe al Milan, in anni in cui a Silvio non si dice di no - durante i Mondiali del Messico nel 1986 e dopo la finale di Coppa delle Coppe nel 1989 a Berna contro il Barcellona (alla Samp arriverebbero un fracco di soldi e lui incasserebbe un ingaggio da signore) - invece risponde proprio no: io rimango qui, dice, ho bisogno di un ambiente così, la mattina apro la finestra e vedo il mare: «E poi adesso la Samp è una grande squadra, hanno smesso di considerarci dei piccoli viziati (lo dicevano a proposito del ricchissimo presidente Mantovani) perennemente con la testa fra le nuvole. Voglio vincere qui, poi ci penserò». E infatti vince tutto il possibile, tranne la finale di Coppa dei Campioni del 1992 contro il Barcellona, a Wembley, davanti a 70.827 spettatori (trentamila sono sampdoriani): Vialli ha due occasioni da gol e le sbaglia (“La notte nera di Vialli”, titolano i quotidiani la mattina dopo) esce al centesimo minuto e al suo posto entra Renato Buso (preso come riserva di Vialli), segna Ronald Koeman (difensore olandese trasformato in regista da Johan Cruijff, all’epoca allenatore dei catalani), su calcio di punizione fischiato a nove minuti dal termine dei tempi supplementari. «Hai vinto tu», dirà Mancini all’arbitro tedesco Schmidthuber: la punizione era inesistente. Erano i gemelli, Vialli e Mancini, la coppia della Sampd’oro, erano il manifesto di Vujadin Boškov, meraviglioso allenatore dei blucerchiati dall’86 al ’92, un serbo con la faccia intagliata nel legno e una cartucciera di frasi definitive: «Rigore è quando arbitro lo dà», «La partita è finita quando arbitro fischia», «Io penso che per segnare bisogna tirare in porta», «Squadra che vince scudetto è quella che ha fatto più punti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Vialli, Boskov e Gullit

Lapidario come la sua Samp ’91 che chiude il girone di ritorno senza sconfitte: quando Ruud Gullit arrivò a Genova, nel 1993, Boskov vedendolo, palla al piede e testa alta, mangiarsi un nugolo di avversari, disse: «Gullit è come cervo che esce di foresta». E quando tornò al Milan, un anno dopo: «Gullit è come cervo ritornato in foresta». Non fu tenero invece con Perdomo, che nella stagione 1989-90 giocava nel detestato Genoa: «Se io sciolgo il mio cane, lui gioca meglio di Perdomo»; poi cercò di scusarsi, o glielo imposero, ma non gli uscì benissimo: «Io non dire che Perdomo giocare come mio cane. Io dire che lui potere giocare a calcio solo in parco di mia villa con mio cane». Ecco, peggio. Vialli dev’essere andato in fissa con le frasi e gli aforismi grazie al magistero di Boškov: ne ha riempito il libro, a ogni storia di grandi sportivi che racconta ha abbinato una frase motivazionale. La prima, che funziona, è “Le citazioni funzionano solo se tu funzioni”.

Vialli e la storia alla Juve

Quando viene ingaggiato dalla Juventus nel 1992 - a Torino vincerà la Coppa Uefa, lo scudetto, la Coppa Italia, la Champions con Marcello Lippi nel 1996 contro l’Ajax - non lo accolgono subito con il tappeto rosso: Trapattoni, che due anni dopo se ne andrà in Germania al Bayern Monaco, è convinto che Vialli sia ormai finito, troppi infortuni, troppi errori, e con Baggio non s’incastra granché. Al posto dell’allenatore-totem milanese, arriva Marcello Lippi. «Nei primi due anni di Juve ero “Brancaleone alle crociate” e non capivo. Ma come? Investi miliardi e poi mi fai allenare su un campo di patate, con poca assistenza e mi lasci da solo a preoccuparmi di tutto», confessò il calciatore, «Io ho bisogno di un profeta: se penso troppo mi faccio male, sono ossessivo, troppo perfezionista. E mi disperdo, mi deprimo. Io ho bisogno di pensare a giocare e basta. Ora lo faccio, ho attorno uno staff competente che decide per me. Il mio profeta è la Juventus e Lippi è l’uomo chiave». L’avvocato Giovanni Agnelli, che vede Vialli dopo il ritiro di Villar Perosa, dice a Lippi: «Scusa, ma questo Vialli quando è arrivato alla Juventus era grasso come un tacchino, adesso è magro, bello, corre e segna. Che cosa gli avete fatto?». E lo paragona a Gigi Riva. Sempre per rimanere sugli Agnelli: sono famose (o sono leggenda) le telefonate che l’avvocato faceva a Vialli tra le sei e le sette del mattino per cercare spiegazioni di quel gol là o di quel passaggio lì. Il calciatore obbligò le segretarie dell’Avvocato a mettere il suo nome in fondo alla lista delle chiamate: almeno il telefono squillava verso le otto. Vialli, quando il Divin Codino se ne va, diventa capitano: «Fare il capitano della Juventus è una grandissima soddisfazione, ma pure una grande responsabilità», dice, «ci sono molti oneri, ma anche molti onori. La fascia ti impone di cercare di non essere criticabile, negli atteggiamenti e nel rendimento». E con Del Piero e Ravanelli porta la squadra in Champions League. Gianni Brera nel 1992 scriveva di lui «è il nostro attaccante numero uno», ma già nell’85, dopo la finale contro il Milan in Coppa Italia, lo chiamava StradiVialli, poiché veniva da Cremona, la città dei violini Stradivari.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Vialli e la lite tra Trapattoni e Sacchi

Nell’88, dopo la partita contro la nazionale sovietica (il muro di Berlino era ancora su), scrisse: “Stradi-Vialli si abbatte come uno splendido berbero sgarrettato per delittuosa nequizia” e poi “Luca da Cremona entra nel Walhalla dei grandi cannonieri italiani, ultimo dei quali, nel tempo, è Luis Riva detto Rombo di tuono”. Su di lui bisticciano Trapattoni e Sacchi: nel ’92 uno lo vuole centrocampista, il secondo, allenatore degli Azzurri, solo centravanti («Faccia il centravanti e basta: a me non interessa che cominci l’azione e la prosegua», disse l’allora ct della Nazionale). Ma poi, a Malta, la partita che valeva le qualificazioni al Campionato del mondo 1994 gira storta e l’idea di Trap non sembra più malaccio: Vialli meno bomber e più regista, lontano dalla porta, dietro la coppia Baggio e Ravanelli o Baggio e CasiraghiUn Vialli più arretrato può consentirmi di schierare un altro attaccante quando le situazioni lo richiedano», risponde Trap a chi gli chiede perché abbiano investito 45 miliardi in uno che non va in gol e se vale la pena sacrificare a centrocampo un goleador). «Lui sa pressare, è intelligente, passa il pallone di prima, insomma è un centrocampista nato», dice il tecnico della Juve, «Deve soltanto abituarsi al ruolo, Luca è d’accordo, tra noi il dialogo è chiaro». In realtà Vialli, che non è più lo stesso Vialli, sta semplicemente zitto. E con il silenzio, arriva la decisione di andarsene al Chelsea.

L'ironia di Vialli

Vialli ormai vive a Londra dal 1996 («La gente paga le tasse», dice, «si ferma alle strisce pedonali, fa la coda. C’è un equilibrio fantastico tra disciplina e libertà”) e l’Italia gli va bene per le vacanze. Il carattere non è cambiato: ha trattato la malattia che lo ha colpito al pancreas con la riservatezza di un lombardo e la responsabilità di un personaggio pubblico; dopo aver confessato di essere andato in giro con un maglione sotto la camicia per nascondere di aver perso 17 chili, oggi riesce persino a scherzarci: «Era impossibile tenerlo nascosto ai miei figli: scoreggiavo dalla mattina alla sera. Facevo delle scoregge record, sembravo un legionario». Della sua guarigione parla di «approccio olistico», cioè il tutto è superiore alla somma delle sue parti: l’operazione, certo, e le cure, tuttavia la parte spirituale e mentale, la forza del subconscio sono ciò che gli permette di non mollare mai. Io, l’approccio olistico, lo riferisco direttamente a lui: il Vialli essere umano è superiore al suo dribbling, ai gol di testa e alle rovesciate (come quel gol formidabile contro la Cremonese, 23 ottobre 1994), come il suo spirito di sacrificio è superiore al carisma, al fiuto per il gol, alla tecnica, alla potenza, alla rapidità. Caro Gianluca, per lei il mio tifo più forte e più affettuoso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Gianluca Vialli, nell’intervista da Fabio Fazio per presentare il suo saggio “Goals. 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili” s’è schermito così, «il libro è a cura di Pierdomenico Baccalario. Se non ci fosse stato lui…». Non è vero: Vialli è stato l’unico calciatore a non aver mai sbagliato un congiuntivo, ragiona e parla come un professore. È di modi eleganti, commenta posato, prudente, un signorino. A Cremona gli dicevano che era “il figlio del miliardario”, ma la madre, Maria Teresa, ha sempre risposto: «Siamo borghesi. Mio marito lavora e ha cinque figli grandi; come potrebbe essere ricco? Il modo di fare non dipende dai soldi, bensì dalla tradizione di una famiglia della quale fanno parte ingegneri, professionisti e anche un rettore universitario». Eppure a Cremona, la villa dei Vialli la chiamano ancora Castello. Ma lui, di certo, non se n’è mai approfittato. C’è gente che sgobba, a Cremona, e che suda, facciano gli operai, i liutai o i calciatori. E Vialli, infatti, che abbandona la scuola a sedici anni per dedicarsi completamente al pallone (però non aver conseguito la maturità gli stava sul gozzo e infatti ha poi preso il diploma di geometra nel 1993), nella Cremonese passa dalla serie C1 alla B nel 1981 e dalla B alla A nel 1984. Quando la stagione successiva viene acquistato dalla Sampdoria, che non aveva mai conquistato niente né a livello nazionale né tantomeno internazionale, con i blucerchiati Vialli vince, in otto anni, tre Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, lo scudetto del 1991 e una Supercoppa di Lega.

La Coppa dei Campioni sfiorata con la Samp

È pure uno fedele, perché il Berlusca che lo vorrebbe al Milan, in anni in cui a Silvio non si dice di no - durante i Mondiali del Messico nel 1986 e dopo la finale di Coppa delle Coppe nel 1989 a Berna contro il Barcellona (alla Samp arriverebbero un fracco di soldi e lui incasserebbe un ingaggio da signore) - invece risponde proprio no: io rimango qui, dice, ho bisogno di un ambiente così, la mattina apro la finestra e vedo il mare: «E poi adesso la Samp è una grande squadra, hanno smesso di considerarci dei piccoli viziati (lo dicevano a proposito del ricchissimo presidente Mantovani) perennemente con la testa fra le nuvole. Voglio vincere qui, poi ci penserò». E infatti vince tutto il possibile, tranne la finale di Coppa dei Campioni del 1992 contro il Barcellona, a Wembley, davanti a 70.827 spettatori (trentamila sono sampdoriani): Vialli ha due occasioni da gol e le sbaglia (“La notte nera di Vialli”, titolano i quotidiani la mattina dopo) esce al centesimo minuto e al suo posto entra Renato Buso (preso come riserva di Vialli), segna Ronald Koeman (difensore olandese trasformato in regista da Johan Cruijff, all’epoca allenatore dei catalani), su calcio di punizione fischiato a nove minuti dal termine dei tempi supplementari. «Hai vinto tu», dirà Mancini all’arbitro tedesco Schmidthuber: la punizione era inesistente. Erano i gemelli, Vialli e Mancini, la coppia della Sampd’oro, erano il manifesto di Vujadin Boškov, meraviglioso allenatore dei blucerchiati dall’86 al ’92, un serbo con la faccia intagliata nel legno e una cartucciera di frasi definitive: «Rigore è quando arbitro lo dà», «La partita è finita quando arbitro fischia», «Io penso che per segnare bisogna tirare in porta», «Squadra che vince scudetto è quella che ha fatto più punti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Loading...
1
Vialli, la Sampdoria, la Juventus e il no al Milan: campione dei gentleman
2
 
3