Buffon esclusivo: da Marotta a Spalletti, da Giuntoli a Vialli: "Il mio calcio"

Intervista alla leggenda della Juve e attuale capo delegazione della Nazionale: "Ho fatto mia la lezione di Vialli"

Buongiorno Gigi, quindi dobbiamo chiamarti direttore?
«No, ancora non sono usciti i quadri con i risultati degli esami, quindi stiamo calmi. Sono, però, molto contento di aver fatto un buon esame e di essermi preparato bene, perché non è una formalità. Diciamo che è la tipica situazione nella quale se non ti prepari a dovere, fai una figura di merda, ecco. Ho dovuto mettermi sotto. Anche perché ci sono delle parti mnemoniche e un po' noiose, per esempio quella sulla giustizia sportiva, con lo statuto e il codice da imparare comma per comma».

Il titolo della tesi che hai discusso è fantastico: "Calcio, società, esperienze personali, un mix ideale per il mio paradigma di direttore sportivo nell'era dell'intelligenza artificiale". Ce la racconti in breve?
«Ho riportato molto delle mie esperienze. Ho pensato che ho vissuto tanto nel calcio e potevo permettermi di raccontare un po’ di cose vere e vissute. Insomma, non volevo esprimere concetti astratti, ma molto concreti. C'è anche un po’ del mio nuovo percorso, del ruolo in Nazionale e dell'essere studente. Ho cercato di metterci della vita, insomma».

Dal titolo sembra un manifesto contro gli algoritmi e l'analisi dei big data.
«Io non credo che esista un modo universalmente valido per capire e raccontare il calcio: gli algoritmi da una parte, l'esperienza empirica e diretta dall'altra. Io sono fortunato perché posso fare da ponte fra il passato e il presente, con uno sguardo sul futuro. Per scegliere i giocatori con i quali comporre una squadra, i nuovi sistemi informatici sono di aiuto e non vanno sottovalutati. Per esempio, per scremare dalla massa venti buoni giocatori nel ruolo in cui stai cercando. Poi, quando l'asticella si alza e non devi più passare dal dodicesimo al terzo posto, ma dal terzo al primo, allora per salire quel piccolo gradino, che piccolo non è per nulla perché è il più difficile di tutti, credo veramente che il sapere e il sentire personali, derivanti dalla tua esperienza, facciano la differenza».

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Come ti stai ambientando senza guanti?
«Guarda, benissimo! Sono molto felice perché mi occupo di tante cose, impegno la testa nel cercare di mettere da parte nuove idee e soprattutto migliorare le mie competenze. E poi, dai, non è che ho smesso a 29 anni, all'improvviso. Era una scelta che da quattro o cinque anni stava lì: dovevo solo scegliere il momento più opportuno. Ora sto molto bene, ho una vita soddisfacente, oltre che lavorativa, anche familiare».

Cosa ti ha spinto a giocare così a lungo?
«Un paio di milioni di motivazioni! (ride). La prima fra tutte è che fino all'ultimo giorno in cui ho giocato mi sentivo di poter competere a livelli altissimi. Seconda: volevo essere un esempio per i miei figli per far capire loro che non sono gli altri a porti i limiti, ma sei tu che devi metterli a te stesso. E i limiti spesso sono più in là di quanto crediamo noi e, soprattutto, di quanto credano gli altri. Terza: l'idea di riabbracciare il Parma e un certo contesto, così come di farmi riabbracciare da loro, perché lì sono cresciuto e sono stato sempre amato. Quando sono tornato alla Juventus ero spinto dal desiderio di ricondividere con determinate persone un percorso e siamo arrivati a una bellissima conclusione con quella Coppa Italia vinta a Reggio Emilia. Certo gli obiettivi erano altri, ma è stato un bel viaggio e, soprattutto, in compagnia di persone con cui ho viaggiato sempre benissimo. E poi ci sarebbero altre quattro, cinque, sei, sette ragioni...».

Sono sincero, pensavo, forse speravo, mi dicessi che fra queste ci fossero la gioia e il divertimento di giocare.
«Beh, ma certo! Ci sono anche la gioia e il divertimento che per me si è sempre annidato nelle sfide che ponevo a me stesso, sono stato la cavia dei miei esperimenti, dei miei stress test in cui cercavo, in ogni situazione, di trovare una cosa nuova da capire, risolvere, analizzare, magari per metterla nel bagaglio per il futuro. Per esempio, sono tornato a fare il secondo, anche per capire un punto di vista diverso. Per capire se fossi stato coerente, se anche da secondo mi sarei comportato da capitano all'interno del gruppo e per capire come si vedono le cose con gli occhi di chi non gioca sempre. Poi sì, la gioia dei novanta minuti è la più forte di tutte. Io nelle partite sublimavo quel godimento, perché mi estraniavo da qualsiasi cosa. Potevo avere problemi, potevo avere brutti pensieri, finanche nel riscaldamento magari ero lì che mi dicevo: "Ma che cavolo ci stai a fare qui, vai a casa dai tuoi figli", poi l'arbitro fischiava l'inizio e per novanta minuti era divertimento puro, senza alcun pensiero».

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C'è ancora, nelle nuove generazioni di calciatori, che tu hai conosciuto da vicino, questo sentimento? Intendo dire questo divertimento nel fare il calciatore?
«Divertirsi si divertono, credo di sì. Magari non sai che tipo di consapevolezza possano avere del fatto di giocare in Serie A, rappresentando questo o quel club e tifoseria. Perché è un calcio completamente diverso, lontano dalle scelte e dai valori con i quali siamo cresciuti. E non so se questa sia una fortuna o meno».

Tu la percepivi questa consapevolezza?
«Guarda, per me giocare in Serie A e indossare la maglia della Juve, così come quella del Parma, rappresentava un riscatto. Ma non un riscatto sociale, un riscatto esistenziale, perché avvicinarmi a certi giocatori che mi avevano ispirato da piccolo, entrare in certi stadi, mi faceva accapponare la pelle. Io ho sempre avuto una certa coscienza di quello che stavo vivendo e una certa incoscienza di quello che sono stato e che ho rappresentato per il calcio, sono sempre stato sereno e ho sempre pensato di avere una fortuna incredibile di giocare con certi calciatori. Adesso temo che il discorso esistenziale sia diverso, con i social, un giovane calciatore si sente già centrale nel mondo, le centinaia di migliaia o i milioni di follower lo rassicurano sul fatto che il mondo sa che esiste e che sa qualcosa di lui. Forse questo può rendere le nuove generazioni più appagate, tuttavia manca la voglia di andare in profondità».

A questo punto mi viene naturale chiederti: sei ottimista sul futuro del calcio mondiale?
«Sta cambiando radicalmente e può essere più godibile, forse meno emozionante e credo stia diventando a tutti gli effetti intrattenimento».

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A proposito di luoghi comuni e ragionamenti sul calcio: tu allargheresti le porte?
«Sai che è un pensiero che si può incominciare a fare? Ne parlavo con i miei parenti e mia moglie l'altro giorno. Quando ho incominciato io, nel 1998, ero tra i primi cinque giocatori più alti della Serie A, l'anno scorso quando ero nel Parma in B, ero sempre fra i cinque più alti, ma dei ventidue in campo! Voglio dire, le misure sono state fissate nel 1875 e per i valori antropometrici di allora erano probabilmente troppo grandi, poi c'è stato un arco temporale diciamo di 50/60 anni in cui, centimetro più centimetro meno, erano giuste, adesso, vedendo determinati atleti e portieri, viene da pensare... D'altronde anche nel volley si discute sull'altezza della rete, avendo due sorelle pallavoliste conosco il problema. Il servizio sta diventando determinante quasi come nel tennis».

Insomma, non ti scandalizzeresti se le allargassero?
«Mah, tanto non decido io, ci sono degli organi preposti che sicuramente delle domande se ne staranno facendo e staranno anche studiando le analisi. Va pure detto che i portieri sono più grandi, vero, ma i giocatori di movimento sono più veloci, imprevedibili e più forti nel calciare. I gesti tecnici migliorano sempre. Ma l'effetto delle dimensioni del portiere lo vedi sui tiri da lontano: trent'anni fa ogni cinquanta tiri facevi 10 gol, oggi è tanto se ne fai 3. Da lontano è molto più difficile segnare con un portiere di due metri».

Parliamo di Nazionale: oggi sembra che nessuno si renda conto che a fine stagione c'è l'Europeo, dopo il sorteggio se n'è parlato zero. Quando salirà la temperatura?
«Ma è presto! Siamo ancora lontani e poi secondo me la gente deve ancora metabolizzare lo spauracchio dello spareggio e degli spareggi poco fortunati da cui venivamo. Ma poi è sempre stato così: l'Italia accende l'entusiasmo nel momento in cui si inizia a giocare».

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Che effetto ti farà tornare in quegli stadi in Germania?
«Tanto. Basti pensare che la prima sarà a Dortmund, dove peraltro ho solo bei ricordi, con la Nazionale per la semifinale del 2006, con la Juventus perché lì avevamo vinto benissimo e con il Parma perché ho parato due rigori in Champions. Me li godrò, quegli stadi, anche perché avrò meno tensioni prepartita».

Cosa dobbiamo temere di più nel girone: il prendere sottogamba l'Albania o la forza della Spagna?
«Occhio che l'Albania è una squadra da prendere con le pinze. Anche perché è la prima. Le prime gare in queste manifestazioni sono sempre un pochino delicate e nervose. Ma credo che con tutto quello su cui stanno lavorando Spalletti e il suo staff, se viene recepito bene dai ragazzi, l'unica preoccupazione sarà solo la condizione in cui arriveremo all'Europeo».

Parlami di Spalletti. Hai avuto dieci ct, da Sacchi a Di Biagio per poche gare, a chi assomiglia? O è un mix di qualcuno di loro?
«Spalletti sicuramente è un allenatore atipico, ha caratteristiche tutte sue: gli piace essere una persona credibile, al centro del gruppo, gli piace dare lui le coordinate al gruppo, tecniche e comportamentali, esigendo disciplina; cerca sempre coerenza tra quello che dice e fa; trasferisce questa sua ricerca in ogni istante, non lascia mai passare niente. Ci conoscevamo da tempo immemore, ma mai da vicino, ora è bello stargli accanto».

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Cosa rappresenta una Nazionale nel calcio di oggi in cui i bambini tifano per i campioni in modo anche transnazionale?
«Ma no, io credo che resti un ancoraggio importante, qualcosa che ti radica al territorio, che ti rappresenta. Piuttosto sono i giocatori che devono farsi delle domande se il loro Paese non empatizza con loro. Ma io credo che le Nazionali contino ancora, eccome».

Qual è la lezione di Vialli che hai fatto tua?
«Non buttare via tempo, la vita è un'opportunità e visto che abbiamo questa fortuna, dobbiamo cercare di metterla a profitto fino all'ultimo giorno. Ah, è ovviamente in quel "profitto" non c'è nulla di economico. Meglio specificare».

Parliamo di portieri: sul nostro giornale Pagliuca ha difeso Donnarumma, dicendo che certi errori si perdonano, per dire, a Maignan e non a lui. È davvero nel mirino?
«Sicuramente! Non dico che c'è un eccesso di critica, ma vedo un certo piacere quando si può sottolineare un suo errore. I tedeschi hanno una parola per indicare il sottile godimento che si prova quando le cose vanno male agli altri: schadenfreude. Ecco io credo che Gigio ne subisca tanto, ma è uno strutturato e ha già superato molte volte questi momenti».

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Gli dai dei consigli?
«Mai! Io non do mai consigli. Quando mi chiedono, io rispondo dando le mie verità. Che sono le mie, ovviamente, mica quelle assolute».

Chi sono i tre portieri più bravi adesso?
«Tre sono troppo pochi. A parte Courtois che è infortunato e che per me aveva qualcosa in più, poi ce ne sono sei o sette che sono fortissimi. I nomi li conoscete, sono quelli lì».

Gli allenamenti hanno livellato il ruolo?
«No, direi di no. Per me un portiere è fatto per il 20-30% di qualità innate e 70-80% di testa. Che vuol dire capacità di capire lo svolgimento del gioco, relazionarti con gli altri, dare sicurezza a un reparto, sono qualità intangibili all'esterno, ma sono molto più importanti del fisico».

Pure Allegri, come Gigio, è uno a cui tendenzialmente non perdonano niente. Perché?
«Perché viene da due anni nei quali la Juve ha passato parecchie vicissitudini. Se penso alla felicità del mondo bianconero quando è tornato... Ma quando si riparte c'è bisogno di tempo. Questi due anni gli hanno permesso di fare delle scelte, di operare una scrematura nel gruppo e magari di costruire per arrivare nel giro di un anno o due alla vittoria».

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Stai seguendo il campionato?
«Seguo "i" campionati. Plurale. Perché il mio percorso da appassionato e calciatore condiziona molto le mie scelte. Io seguo molto la Serie C per la mia Carrarese e poi il campionato dilettanti, che mi appassiona da morire. Poi mi imbatto negli highlights di Serie A e B, dove cerco sempre la Juventus e il Parma. Sempre. E poi un po' di Champions. Passo dai dilettanti alla Champions con grande facilità e felicità. Poi, ovvio, cerco di seguire i giocatori della Nazionale».

Quella di lottare con l'Inter per lo scudetto è un'illusione dello spogliatoio juventino o c'è uno spiraglio?
«Illusione? E perché? Certo, non deve essere l'obiettivo, quello che ti toglie il sonno di notte, ma deve essere “un” obiettivo, una speranza. E deve essere quella voglia e quella determinazione a spostare il limite di ogni squadra».

Sei in procinto di diventare direttore sportivo: Marotta in questo periodo storico è il più bravo dirigente che c'è?
«Diciamo che quando arriva nei posti è bravissimo. Nessuno riesce a scegliere le persone e sistemare le cose importanti. È una capacità innata e naturale di percepire ciò di cui c'è bisogno e trovare la soluzione. Marotta è uno che fa immediatamente la diagnosi e non sbaglia la cura e becca sempre la prognosi, tutto molto velocemente. È una qualità che hanno in pochi: solo gente sveglia ed esperta. Detto ciò, attenzione a Giuntoli: il percorso che ha fatto Cristiano è stato di grande rilievo e lo pone fra i top. Forse stiamo facendo confusione, perché Giuntoli non è un competitor di Marotta per ruolo e Beppe non è un direttore sportivo ma qualcosa di più. Come direttore sportivo “puro”, Cristiano è uno di quelli che, in questi ultimi anni, ha fatto più degli altri. E ha un suo animalesco fiuto per il calcio».

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Ti confesso una cosa: c'è stato un momento, nell'estate del 2019, in cui ho capito cos'era Gianluigi Buffon. Forse un po' tardi, lo ammetto. Amichevole Juve-Atletico a Stoccolma, entri dopo l'intervallo e tutto lo stadio si alza in piedi per applaudire. Eravamo in un Paese straniero e probabilmente molti di quei tifosi erano venuti per vedere una leggenda vivente. Mi ha stupido e inorgoglito. Ora gli avversari (vedi il portiere della Macedonia) ti chiedono i selfie tutti emozionati: che effetto ti fa?
«Soddisfazione e gratificazione. Come ti ho detto prima, ho realmente vissuto in uno stato di incoscienza su ciò che ero o su come venivo percepito, rimango ancora sorpreso. Il mio approccio è sempre stato quello di vivere la mia carriera per la felicità naturale che mi donava, non ho mai cavalcato i social, curato l'immagine o cose del genere. La prima volta che mi sono accorto di essere “qualcuno” è stato con il Psg, nei tour in Oriente: la quantità di gente che era interessata a me mi faceva quasi ridere. Scherzavo con Verratti: “Ma lo vedono che sono un vecchio di 41 anni o no?”. In Italia non c'è il riconoscimento del talento, se sei di una determinata squadra, la Juventus soprattutto, ne hai metà a favore e metà contro, non c'è un approccio di sportività: o ti esaltano o ti insultano. Mi commuove l'affetto e l'ammirazione delle persone. Anche perché, diciamolo, puoi vincere quello che vuoi, anche i Mondiali, ma se non c'è la gente ad aspettarti all'aeroporto è quasi come non aver vinto. L'epica la scrivono i tifosi, magari esagerando a volta, ma sono loro il termometro delle imprese sportive».


Quante volte in un giorno ti viene voglia di tornare in campo?
«Mai. Davvero. Quando mi sono fatto male a Cagliari nei playoff dell'anno scorso è stato il fischio finale. In fondo, io volevo solo che ci fosse un motivo valido per smettere e quello è stato perfetto, era fine maggio, per la terza volta mi facevo male al polpaccio, che è un infortunio fastidioso: per riprendere mi ci sarebbero voluti tre, forse quattro mesi e allora ho capito che era venuto il momento. Poi è venuto il corso per diventare ds e ora mi sono iscritto a un master della Bocconi per manager d’azienda».

Accidenti, hai un progetto formativo tosto.
«Sai, ho scoperto il piacere di apprendere. È un piacere sottile che si appaga imparando cose nuove delle quali non hai mai abbastanza. La verità è che la vita è organizzata male: ci fanno studiare da giovani quando non ne abbiamo voglia, quando invece ti viene da adulto, quella voglia. Bisognerebbe invertire le cose».

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Buongiorno Gigi, quindi dobbiamo chiamarti direttore?
«No, ancora non sono usciti i quadri con i risultati degli esami, quindi stiamo calmi. Sono, però, molto contento di aver fatto un buon esame e di essermi preparato bene, perché non è una formalità. Diciamo che è la tipica situazione nella quale se non ti prepari a dovere, fai una figura di merda, ecco. Ho dovuto mettermi sotto. Anche perché ci sono delle parti mnemoniche e un po' noiose, per esempio quella sulla giustizia sportiva, con lo statuto e il codice da imparare comma per comma».

Il titolo della tesi che hai discusso è fantastico: "Calcio, società, esperienze personali, un mix ideale per il mio paradigma di direttore sportivo nell'era dell'intelligenza artificiale". Ce la racconti in breve?
«Ho riportato molto delle mie esperienze. Ho pensato che ho vissuto tanto nel calcio e potevo permettermi di raccontare un po’ di cose vere e vissute. Insomma, non volevo esprimere concetti astratti, ma molto concreti. C'è anche un po’ del mio nuovo percorso, del ruolo in Nazionale e dell'essere studente. Ho cercato di metterci della vita, insomma».

Dal titolo sembra un manifesto contro gli algoritmi e l'analisi dei big data.
«Io non credo che esista un modo universalmente valido per capire e raccontare il calcio: gli algoritmi da una parte, l'esperienza empirica e diretta dall'altra. Io sono fortunato perché posso fare da ponte fra il passato e il presente, con uno sguardo sul futuro. Per scegliere i giocatori con i quali comporre una squadra, i nuovi sistemi informatici sono di aiuto e non vanno sottovalutati. Per esempio, per scremare dalla massa venti buoni giocatori nel ruolo in cui stai cercando. Poi, quando l'asticella si alza e non devi più passare dal dodicesimo al terzo posto, ma dal terzo al primo, allora per salire quel piccolo gradino, che piccolo non è per nulla perché è il più difficile di tutti, credo veramente che il sapere e il sentire personali, derivanti dalla tua esperienza, facciano la differenza».

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