Come ti stai ambientando senza guanti?
«Guarda, benissimo! Sono molto felice perché mi occupo di tante cose, impegno la testa nel cercare di mettere da parte nuove idee e soprattutto migliorare le mie competenze. E poi, dai, non è che ho smesso a 29 anni, all'improvviso. Era una scelta che da quattro o cinque anni stava lì: dovevo solo scegliere il momento più opportuno. Ora sto molto bene, ho una vita soddisfacente, oltre che lavorativa, anche familiare».
Cosa ti ha spinto a giocare così a lungo?
«Un paio di milioni di motivazioni! (ride). La prima fra tutte è che fino all'ultimo giorno in cui ho giocato mi sentivo di poter competere a livelli altissimi. Seconda: volevo essere un esempio per i miei figli per far capire loro che non sono gli altri a porti i limiti, ma sei tu che devi metterli a te stesso. E i limiti spesso sono più in là di quanto crediamo noi e, soprattutto, di quanto credano gli altri. Terza: l'idea di riabbracciare il Parma e un certo contesto, così come di farmi riabbracciare da loro, perché lì sono cresciuto e sono stato sempre amato. Quando sono tornato alla Juventus ero spinto dal desiderio di ricondividere con determinate persone un percorso e siamo arrivati a una bellissima conclusione con quella Coppa Italia vinta a Reggio Emilia. Certo gli obiettivi erano altri, ma è stato un bel viaggio e, soprattutto, in compagnia di persone con cui ho viaggiato sempre benissimo. E poi ci sarebbero altre quattro, cinque, sei, sette ragioni...».
Sono sincero, pensavo, forse speravo, mi dicessi che fra queste ci fossero la gioia e il divertimento di giocare.
«Beh, ma certo! Ci sono anche la gioia e il divertimento che per me si è sempre annidato nelle sfide che ponevo a me stesso, sono stato la cavia dei miei esperimenti, dei miei stress test in cui cercavo, in ogni situazione, di trovare una cosa nuova da capire, risolvere, analizzare, magari per metterla nel bagaglio per il futuro. Per esempio, sono tornato a fare il secondo, anche per capire un punto di vista diverso. Per capire se fossi stato coerente, se anche da secondo mi sarei comportato da capitano all'interno del gruppo e per capire come si vedono le cose con gli occhi di chi non gioca sempre. Poi sì, la gioia dei novanta minuti è la più forte di tutte. Io nelle partite sublimavo quel godimento, perché mi estraniavo da qualsiasi cosa. Potevo avere problemi, potevo avere brutti pensieri, finanche nel riscaldamento magari ero lì che mi dicevo: "Ma che cavolo ci stai a fare qui, vai a casa dai tuoi figli", poi l'arbitro fischiava l'inizio e per novanta minuti era divertimento puro, senza alcun pensiero».