Rivoluzione Superlega: la lotta tra Usa, Qatar e Arabia cambia il calcio

Al di là della Corte di Giustizia, la battaglia per il controllo del football europeo potrebbe anche cambiare radicalmente le competizioni: ragioni economiche e politiche
Rivoluzione Superlega: la lotta tra Usa, Qatar e Arabia cambia il calcio

Nel calcio europeo non si compete solo per le coppe. Senza che la cosa susciti particolare interesse, è in corso una battaglia geopolitica per il controllo del pallone nel Vecchio Continente. Da una parte i Paesi della penisola araba, dall’altra gli americani e, ovviamente, si combatte con i soldi. Un mucchio di soldi, che serve a controllare una leva di cruciale importanza sotto il profilo politico, economico e sociale: il calcio. Attraverso il pallone, nazioni come il Qatar e l’Arabia Saudita, in parte gli Emirati, cercano il cosiddetto sportwashing, ovvero l’utilizzo del calcio per ricostruirsi un’immagine internazionale incrinata sul fronte dei diritti umani, ma soprattutto puntano a ottenere relazioni politiche e mettere le mani su importanti attività immobiliari, in estrema sintesi mirano ad acquisire un peso specifico sempre più rilevante in Europa. Peso che la finanza americana, evidentemente, non ha piacere di lasciare ai Paesi della penisola araba ed è così che molti fondi statunitensi sono entrati o stanno entrando in modo pesante nel calcio europeo.

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Una Superlega americana

Come riportato da “Il Sole 24”, i fondi Usa hanno immesso 10 miliardi di euro fra acquisto di club europei e investimenti correlati nel calcio. Mentre 5 miliardi (focalizzati su pochi club) sono atterrati nel pallone europeo dalla penisola araba, per la quale tuttavia andrebbero conteggiati anche i duecento miliardi spesi dal Qatar per il Mondiale 2022. Cifre importanti e soldi veri, dunque, e nel posizionamento politico appare chiaro come i qatarini si siano schierati nettamente con l’establishment di Uefa e Fifa (Nasser Al-Khelaifi è il più fedele alleato di Ceferin; Infantino è l’uomo che ha pomposamente celebrato il Mondiale in Qatar). La posizione degli americani è meno palese e più defilata, ma agli osservatori più attenti non è sfuggito che il progetto della Superlega era (ed è) un progetto con una forte matrice finanziaria americana. E tra i sostenitori non c’era solo la JP Morgan, principale finanziatore della Superlega, ma anche la holding Usa Kroenke Sports & Entertainment, proprietaria dell’Arsenal, come pure l’azionista del Liverpool, la Fenway Sports.

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L'ingresso delle Big Tech

D’altronde la posizione dei fondi americani rispetto all’organizzazione del calcio europeo è piuttosto critica. Se da una parte si godono la gallina dalle uova d’oro che è diventata (anche grazie a loro) la Premier League, ragionano da tempo su un modello di competizioni più efficiente sotto il profilo economico, vista l’insostenibilità finanziaria della maggior parte dei club. Anche perché sullo sfondo si stanno muovendo altri fondamentali attori per lo scenario sportivo mondiale: le cosiddette Big Tech, ovvero Google, Apple, Amazon. Tutte e tre hanno mosso i primi prudenti passi nel mondo dello sport nel corso del 2022: Google con il “Sunday ticket” con cui ha trasmesso su YouTube partite del campionato Nfl; Apple con la partnership (parlare di mera vendita di diritti non sarebbe preciso) con la Major Soccer League che porterà alla lega calcio Usa 2,5 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni; Amazon con la trasmissione delle partite di Champions League. La prospettiva dei prossimi anni viene indicata con un impegno sempre più esteso e intensivo delle Big Tech nel mondo dello sport e l’impatto con i giganti finirà per ridisegnare le competizioni. Il concetto guida sarà quello di prodotto globale, format avvincente e grandi protagonisti sempre in gioco. Insomma, una Superlega sarebbe molto più adatta anche della Champions League, prodotto di punta mondiale del calcio dei club.

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Il parere della Corte di Giustizia Europea

E se la Corte di Giustizia Europea desse ragione all’Uefa? In realtà, lo scenario potrebbe anche prescindere dal parere della Corte, perché nella peggiore delle ipotesi non potrà essere vietata l’organizzazione di una competizione alternativa a quelle dell’Uefa, ma solo consentito all’Uefa di escludere i club che vi partecipano (e attenzione: ai club e basta, i giocatori potrebbero passare da un sistema all’altro e non perdere le nazionali). Insomma, gli americani potrebbero anche forzare l’introduzione della supercompetizione in cui raggruppare l’élite europea, garantendo introiti altissimi e l’unica vera visibilità globale. Sull’altro fronte, il Qatar e magari l’Arabia potrebbero spalleggiare la resistenza dell’Uefa alla pressione di una competizione alternativa, forti anche del fatto che i club transfughi dovrebbero uscire anche dai campionati nazionali, fattore che rappresenta un freno enorme per molti (a partire dai club italiani). Tuttavia, c’è chi inizia a chiedersi cosa ne sarà dei campionati nazionali in uno scenario uefacentrico, con la Premier League da una parte e la nuova Champions League dall’altra a prosciugarne i ricavi (l’ad della Serie A, Luigi De Siervo, ha recentemente dichiarato che i “nemici” più pericolosi per i diritti tv italiani sono proprio Premier e Champions). Il tema di una grande competizione europea, disegnata secondo criteri meno politici (ovvero senza doveri di inclusione di nazioni calcisticamente meno forti solo per esigenze elettorali) e più mediatico-commerciali, va quindi al di là del pronunciamento della Corte Europea, previsto fra meno di un mese. Ovvero: è, sì, una questione di diritto dell’Unione e di eventuale abuso di monopolio, ma anche un tema squisitamente economico e in parte anche geopolitico.

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Gli Usa in Italia

E in questo quadro vanno inserite e considerate le compravendite di club che stanno moltiplicandosi in questi mesi con l’avanzata dagli americani da una parte e di qatarini e sauditi dall’altra. In Italia sono già sette i club a proprietà statunitense (Milan, Roma, Atalanta, Fiorentina, Genoa, Spezia, Bologna) e otto in Premier League (Arsenal, Aston Villa, Bournemouth, Chelsea, Crystal Palace, Fulham, Liverpool e Manchester United). Ma proprio in questi giorni l’Everton potrebbe diventare americano (777 Partners) e si replica il grande scontro Usa-Qatar per lo United che potrebbe passare in mani angloamericane se prevalesse Jim Ratcliffe (miliardario nel settore petrolchimico che prepara l’offerta con i fondi statunitensi Goldman Sachs e, guarda un po’, JP Morgan) o finire in mani qatarine in caso di successo dell’offerta di Jassim bin Jaber Al Thani, ex primo ministro del Qatar. Una cosa è certa, qualunque sia il finale di questa vicenda e di quella più ampia a livello europeo, il calcio non è e non sarà mai del popolo, ma resterà un business venduto più o meno bene e che rimarrà più o meno rilevante a livello mondiale.

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Nel calcio europeo non si compete solo per le coppe. Senza che la cosa susciti particolare interesse, è in corso una battaglia geopolitica per il controllo del pallone nel Vecchio Continente. Da una parte i Paesi della penisola araba, dall’altra gli americani e, ovviamente, si combatte con i soldi. Un mucchio di soldi, che serve a controllare una leva di cruciale importanza sotto il profilo politico, economico e sociale: il calcio. Attraverso il pallone, nazioni come il Qatar e l’Arabia Saudita, in parte gli Emirati, cercano il cosiddetto sportwashing, ovvero l’utilizzo del calcio per ricostruirsi un’immagine internazionale incrinata sul fronte dei diritti umani, ma soprattutto puntano a ottenere relazioni politiche e mettere le mani su importanti attività immobiliari, in estrema sintesi mirano ad acquisire un peso specifico sempre più rilevante in Europa. Peso che la finanza americana, evidentemente, non ha piacere di lasciare ai Paesi della penisola araba ed è così che molti fondi statunitensi sono entrati o stanno entrando in modo pesante nel calcio europeo.

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