Chiesa esclusivo: Juve, Vlahovic e Scudetto, "Io e Dusan vogliamo sognare"

Intervista al campione bianconero: dalla blindatura di Giuntoli in estate ("sua l'unica telefonata di mercato") a Allegri e al cambio di ruolo. La Champions, il futuro, l'Italia

Nella confortevole quiete blindata della Continassa, Federico Chiesa è un perfetto padrone di casa: sicuro, spigliato. Ironico al momento giusto e guardingo, ma con classe, se è il caso. Senza alcuna reticenza, però, anche di fronte alle spinose questioni legate alla giustizia o alla fase di ricostruzione tecnica che sta attraversando la Juventus. Un posto, più che una squadra, di cui ha compreso fino in fondo l’essenza, il significato, il peso specifico che rappresenta e che occorre, con orgoglio e consapevolezza, sopportare. E così è sgorgata una piacevole e intrigante chiacchierata, a prescindere dalla scadenza imminente del derby, alla fine della quale ci siamo portati in dote la sensazione di esserci confrontati con un “capitano in pectore” per la Juventus del futuro.



Federico Chiesa, innanzitutto: come sta?
«Sto bene, anzi: sto benone. Il processo di recupero dall’infortunio è ormai alle spalle. Non voglio proprio più sentire la parola recupero: ora sono al meglio sia fisicamente che mentalmente».

Nessun problema di identità per il nuovo ruolo di seconda punta, quindi?
«Quella semmai è una percezione che arriva dall’esterno. Io penso soltanto a lavorare sodo per migliorare ogni giorno, con fiducia nei confronti della scelta del mister di avanzarmi. E credo di essere partito bene in questa stagione...».

Come replica alla narrazione secondo cui lei e Allegri non andate poi tanto d’accordo?
«Ma va, io vado d’accordo con tutti!».

Nelle ultime settimane ha insistito molto sul concetto di “calcio moderno” da perseguire in campo: ma che cosa intende esattamente con questa locuzione?
«È un’idea che comprende l’intenzione di pressare alto l’avversario così come quella di essere più propositivi possibile con il pallone tra i piedi: tutto ciò che stiamo cercando di fare, insomma. Anche se poi c’è partita e partita: bisogna trovare gli equilibri corretti e maturare come collettivo per capire i momenti, perché questo è quello che contraddistingue le grandi squadre. A Reggio Emilia contro il Sassuolo, per esempio, nel finale ci siamo disuniti troppo e l’abbiamo pagato».

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Quanto vi confrontate in settimana su questi temi?
«Tanto: guardiamo video, rivediamo le nostre partite per valutare cosa è stato fatto bene e cosa invece no. Ci aiuta molto il supporto di Magnanelli e Padoin, in questo».

A proposito, si è parlato molto dell’ingresso nello staff di Magnanelli: cosa ha portato in più?
«Ha preso in tutto e per tutto il posto di Bianco, con cui abbiamo avuto meno tempo di lavorare perché lo scorso anno ogni tre giorni eravamo in campo. In questa stagione, invece, abbiamo più margine per provare e riprovare gli schemi nel corso della settimana: quando abbiamo avuto conferma dell’esclusione dalle coppe, l’intero piano d’allenamento è stato rimodulato».

Ma avvertite un po’ di scetticismo intorno a questa Juventus in fase di rilancio?
«Veniamo da due anni di fila senza trofei: questo alla società non fa piacere e, probabilmente, influisce anche sulla percezione della squadra dall’esterno. Ma il nostro obiettivo è quello entrare nella prossima Champions League, come già avevamo fatto lo scorso anno, quando il risultato ci è stato sottratto dopo che ce l’eravamo conquistato sul campo. Poi, per carità: vediamo dove saremo a marzo... a quel punto capiremo se potremo ambire a qualcosa in più!».

Ecco, a distanza di qualche mese dall’accaduto: come vivevate in gruppo, lo scorso anno, l’evoluzione delle vicende extra-campo?
«Con il pensiero, per quanto mi riguarda, che sarebbe stato più lineare affrontare il tema a fine stagione. A campionato in corso, invece, è stato davvero difficile da gestire: puoi anche aspettarti delle sanzioni, ma quando poi vedi nel concreto la classifica cambiare di colpo… Siamo scesi in campo dando sempre il massimo, fa ovviamente male assistere a un declassamento improvviso. E poi i punti tolti, ridati e di nuovo tolti: non è stato per nulla semplice da digerire».

Si è venuta a creare una certa depressione, a lungo andare, nello spogliatoio?
«No, al contrario: è emersa una grande voglia di rivalsa. A volte, però, si è rivelato difficile anche riuscire ad esprimerla. Come accaduto ad Empoli, per esempio, quando siamo stati informati della penalizzazione a pochi minuti dall’ingresso in campo. Il mantra era diventato quello di provare a combattere contro tutto e tutti: gli avversari, ma anche tutti i fattori esterni».

Le vicende giudiziarie vi hanno lasciato in eredità più rabbia o, archiviato ogni discorso, più un senso di leggerezza?
«Sinceramente oggi nessuno ne parla più in spogliatoio, né i giocatori né l’allenatore: finalmente abbiamo la testa davvero libera per pensare solamente al campo».

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Che aria si respira nel nuovo gruppo che si è venuto a creare in estate?
«Hanno salutato giocatori importanti, di livello internazionale, ma sono arrivate energie giovani con i vari Weah e Cambiaso. Oltre ai ragazzi che sono stati promossi dalla Next Gen, naturalmente, come Huijsen, Yildiz o lo stesso Iling, che già aveva raccolto della presenze nella passata stagione: li vedo in allenamento tutti i giorni e hanno davvero un grande futuro davanti. La società conta su di loro e lo stesso facciamo noi compagni di squadra. Tra qualche anno sono sicuro che potranno prendere loro le redini della Juventus».

In mezzo a così tanti giovani, non è che lei si sente già un po’ leader?
«Intanto abbiamo capitan Danilo, che è il più saggio di tutti. E poi elementi d’esperienza come Szczesny o come Rabiot che, a sua volta, dà tanti consigli tra le mura dello spogliatoio. Sono loro quelli che parlano di più, che comunicano con tutto il gruppo. Poi, certo, io sono al quarto anno a Torino e, assieme a compagni come Vlahovic e come Milik, che viene molto ascoltato, cerchiamo di dire la nostra e di fare più possibile gruppo».

A proposito di Vlahovic: giocare vicini sta contribuendo a rafforzare anche la vostra amicizia?
«Eravamo già grandi amici a Firenze, fin da quando lui era ancora in Primavera, per cui è stato molto bello ritrovarlo in bianconero. E insieme, lì davanti, siamo anche partiti piuttosto bene».

Ecco: ci rassicura sul fatto che stia bene anche lui, nonostante qualche acciacco recente?
«Sì sì, tranquilli: Dusan sta molto bene!».

Ha scelto di rimanere nonostante le penalizzazioni: che cos’è la Juventus senza coppe?
«È una Juventus alle prese con una situazione particolare, insolita nella storia del club. Ma lo è soltanto perché l’Europa ci è stata tolta dopo averla conquistata. Due volte, per altro, visto che anche con il -10 ci saremmo comunque qualificati per la Conference League».

Ci tolga una curiosità: ma le partite di Champions riesce a guardarle comunque?
«Eh... le guardo, le guardo (sorride, fa una pausa, si guarda attorno, ndr). E rosico pure un po’, ma soltanto perché quel palcoscenico l’avevamo meritato e ci è stato sottratto. Il Milan è arrivato quinto e ora disputa la Champions soltanto perché a noi è stata tolta...».

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Ma, nel male della situazione, le è capitato di pensare che questo potesse essere l’anno ideale per giocare una sola volta a settimana così da resettare dopo l’infortunio e gli strascichi conseguenti?
«Sono certo che questo sarebbe stato l’anno giusto a prescindere, perché ero già focalizzato sulla nuova stagione all’indomani degli impegni con la Nazionale a giugno. Il periodo di vacanze mi ha fatto molto bene dopo sei mesi difficili, ma fin dall’estate il mio unico pensiero era quello di tornare al più presto in campo per fare un grande ritiro estivo. È l’unica cosa di cui ho parlato con Giuntoli, quando ha assunto il nuovo incarico e mi ha telefonato: “Direttore, mi serve una gran preparazione per tornare in forma”».

Con il mister, invece, ai nastri di partenza della stagione cosa vi siete confidati?
«Appena ci siamo incrociati, in ritiro, Allegri è stato il primo a dirmi che mi vedeva molto bene fisicamente. E infatti adesso mi sta dando grande fiducia, con tutti gli aspetti positivi che ne conseguono anche a livello mentale».

Ma è vero, ampliando invece il discorso ai suoi interessi, che è un fanatico di astronomia?
«Sì, è vero, mi ha sempre affascinato: il calcio e i documentari sull’universo sono sempre state le mie due passioni più grandi. Poi, per fortuna, sono riuscito a sfondare nel pallone… altrimenti, sull’altro versante, avrei dovuto studiare molto di più!».

E, quindi, che pianeta è la Juventus?
«Più che un pianeta è una stella: è il sole, intorno al quale tutto ruota. Un punto d’arrivo, con così tanti tifosi e così tante responsabilità di conseguenza. In bianconero anche un pareggio viene visto come una sconfitta, ma lo dobbiamo accettare se vogliamo indossare questa maglia».

E le piace tutta questa pressione?
«Se mi piace? Sono venuto a Torino apposta!».

La sua formazione così particolare, all’International School of Florence, la aiuta ora a gestire i momenti più difficili anche in ambito calcistico?
«Il mio percorso scolastico è stato molto “open minded”, come dicono gli inglesi, fin da piccolo in classe mi sono confrontato con compagni da ogni angolo del mondo. Questo mi ha aiutato a coltivare dei punti di vista diversi, che adesso mi agevolano nei rapporti all’interno dello spogliatoio. Diciamo che, grazie alla scuola che ho frequentato, credo oggi di avere più facilità nel capire il pensiero di compagni che arrivano anche da realtà lontane dalla nostra».

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Sono mattoncini per costruire un futuro da capitano?
«Il nostro riferimento adesso è Danilo, che è un grande giocatore e soprattutto un grande leader. Per ora la fascia è sua e io non ci penso».

Ma non è che questa proprietà linguistica sottende un prossimo passaggio in Premier League, come si era sussurrato già in estate?
«L’unica voce che ho sentito in estate, ad essere sincero, è stata proprio quella del direttore Giuntoli, con cui abbiamo concordato come la priorità fosse preparare al meglio la nuova stagione. L’inglese, tutt’al più, mi aiuta per comunicare in maniera fluida con McKennie e Weah all’interno dello spogliatoio!».

A Londra, restando in tema, durante l’ultimo Europeo ha segnato forse il gol più importante della sua carriera finora, in semifinale contro la Spagna: vi sentite sempre con il gruppo che ha conquistato il titolo continentale?
«Sì, certo, abbiamo una chat in comune. Di quell’estate mi porto dietro un ricordo straordinario, anche se il successivo infortunio ha fatto un po’ sbiadire quelle sensazioni. E mi ha alterato anche la percezione del tempo: mi sembrano passati molto più di due anni...».

Ma il pensiero di quel trionfo, durante la convalescenza, non l’ha aiutata a superare il momento difficile?
«No, anzi: l’unico pensiero bello, in quel momento, era legato alla partita che avrei finalmente giocato al ritorno in campo. Che poi, fatalmente, è coinciso con l’ultima gara in Champions del club, lo scorso anno contro il Psg».

Che idea si è fatto, invece, della successiva frattura tra Mancini e Federazione?
«Sinceramente posso solo ringraziare il commissario tecnico per la grandissima fiducia che ha riposto in me, soprattutto prima dell’Europeo. Le sue decisioni personali, poi, non sono in grado di commentarle. Ma, di certo, ha avuto grande influenza su di me, in campo e fuori. Di quello che mi ha insegnato sul rettangolo verde, infatti, ho fatto tesoro anche nella vita di tutti i giorni: in particolare, mi ha sempre spronato a maturare al fine di compiere la scelta giusta nei momenti decisivi».

Restando all’azzurro: si va ai prossimi Europei, sì?
«Ci credo fortemente, certo. Abbiamo tutte le carte in regola per staccare la qualificazione e, soprattutto, dipende solo da noi. Il gruppo ha qualità e un nuovo tecnico preparato come Spalletti, che ha dimostrato il suo valore l’anno passato e già anche in quelli precedenti. Dopo il pareggio con la Macedonia è cresciuta la pressione, ma a San Siro contro l’Ucraina abbiamo disputato davvero una grande prestazione».

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Ma la Nazionale senza blocco Juve rappresenta un po’ un’anomalia?
«Dipende dalle annate, ma in bianconero i giovani forti e italiani ci sono eccome. Penso a Fagioli e a Miretti, innanzitutto, ma anche a Gatti. E poi, oltre a me, ci sono Locatelli e Kean: la prospettiva di una prossima ItalJuve c’è, poi sta ovviamente a noi meritare la convocazione».

Federico e papà Enrico: ora che anche lei è diventato a tutto tondo un attaccante, in famiglia sono iniziati i paragoni del caso?
«No, assolutamente. Con papà parliamo di calcio, ovviamente, ma senza metterci a confronto».

Ma coltiva l’ambizione di diventare il capocannoniere del campionato, magari trascinando così la Juventus al titolo?
«Intanto ho l’obiettivo di migliorare il mio massimo score personale, quindi voglio superare quota 10 gol. Con la Juventus, invece, dobbiamo pensare a entrare nella prossima Champions. Poi, certo, da sognatore quale sono mi piace sempre alzare la posta in palio...».

Si narra che i bomber di razza maturino una sorta di dipendenza dal gol: è già scattata questa scintilla?
«Anche se ho cambiato ruolo, in realtà, il mio primo pensiero continua ad andare alla prestazione per la squadra, il gol non è che una conseguenza secondaria. Allegri mi ha sempre spronato a stare di più dentro la partita, a non abbassare l’attenzione per 100’, e ora sento di esserci arrivato. Mi focalizzo soprattutto su questo: aumentare la concentrazione, per alzare l’asticella, è fondamentale. Mi sento maturato, adesso: mi serviva sicuramente esperienza, ma probabilmente anche un’età maggiore».

È la settimana del derby: che partita rappresenta per voi?
«Una gara sentitissima, naturalmente. Per noi sarà importante a prescindere, per raccogliere bottino pieno dopo il pareggio di Bergamo e per tornare subito al successo davanti ai nostri tifosi. Poi, certo, la stracittadina è una grande partita, ma con questa maglia sinceramente lo sono tutte».

L’aria, nello spogliatoio bianconero, è forse più frizzantina nella settimana che porta alla sfida con l’Inter?
«Probabilmente sì, a livello mediatico si sente di più. Ma il derby in città si avverte eccome. Ci attende una grande partita contro un Toro che verrà allo Stadium a fare la battaglia, come ha già anticipato Juric».

Ma, quindi, Torino è granata o è bianconera?
«Che domande… Torino è bianconera!».

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Nella confortevole quiete blindata della Continassa, Federico Chiesa è un perfetto padrone di casa: sicuro, spigliato. Ironico al momento giusto e guardingo, ma con classe, se è il caso. Senza alcuna reticenza, però, anche di fronte alle spinose questioni legate alla giustizia o alla fase di ricostruzione tecnica che sta attraversando la Juventus. Un posto, più che una squadra, di cui ha compreso fino in fondo l’essenza, il significato, il peso specifico che rappresenta e che occorre, con orgoglio e consapevolezza, sopportare. E così è sgorgata una piacevole e intrigante chiacchierata, a prescindere dalla scadenza imminente del derby, alla fine della quale ci siamo portati in dote la sensazione di esserci confrontati con un “capitano in pectore” per la Juventus del futuro.



Federico Chiesa, innanzitutto: come sta?
«Sto bene, anzi: sto benone. Il processo di recupero dall’infortunio è ormai alle spalle. Non voglio proprio più sentire la parola recupero: ora sono al meglio sia fisicamente che mentalmente».

Nessun problema di identità per il nuovo ruolo di seconda punta, quindi?
«Quella semmai è una percezione che arriva dall’esterno. Io penso soltanto a lavorare sodo per migliorare ogni giorno, con fiducia nei confronti della scelta del mister di avanzarmi. E credo di essere partito bene in questa stagione...».

Come replica alla narrazione secondo cui lei e Allegri non andate poi tanto d’accordo?
«Ma va, io vado d’accordo con tutti!».

Nelle ultime settimane ha insistito molto sul concetto di “calcio moderno” da perseguire in campo: ma che cosa intende esattamente con questa locuzione?
«È un’idea che comprende l’intenzione di pressare alto l’avversario così come quella di essere più propositivi possibile con il pallone tra i piedi: tutto ciò che stiamo cercando di fare, insomma. Anche se poi c’è partita e partita: bisogna trovare gli equilibri corretti e maturare come collettivo per capire i momenti, perché questo è quello che contraddistingue le grandi squadre. A Reggio Emilia contro il Sassuolo, per esempio, nel finale ci siamo disuniti troppo e l’abbiamo pagato».

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